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Un Aroldo ottocentesco

di Daniele Carnini
  Aroldo
Data di pubblicazione su web 17/11/2003  
Su Aroldo e Stiffelio si sono dette così tante cose che chiunque abbia a tiro una biblioteca circolante può sapere nel dettaglio le differenze tra la prima opera (scritta da Verdi nel 1850 per Trieste) e la seconda, sua reincarnazione del 1857. Come tutti sanno, Stiffelio è una storia di corna (siamo autorizzati a questa espressione forte dal maestro stesso che in una lettera a Piave, a proposito di una romanza per Ivanoff, le vantò come importante veicolo drammaturgico). Il marito tradito è un pastore protestante: la delicata questione se egli debba, e come, perdonare alla moglie e all'amante di lei, permette a Verdi di creare un dramma innovativo ed insolito. La scena finale in cui il pastore concede il perdono alla consorte durante la lettura coram populo del Vangelo è toccante e semplice (quanto ovviamente inammissibile per la censura dell'epoca: anche di qui le difficoltà di circolazione dell'opera). Il fatto che l'amante sia trucidato dal bellicoso suocero di Stiffelio poco prima di questa ultima scena aggiunge suspense alla decisione del protagonista, sconvolto da quel che ha visto e dal fatto che i suoi appelli alla pace non sono serviti a nulla. È una meditazione sulla coppia, sulla fede, sul perdono: alcuni degli argomenti più cari al Verdi maturo.

Anche Aroldo è una storia di tradimento. Ma Verdi fu costretto ad omettere ogni riferimento ecclesiastico e cercò di salvare capra e cavoli tramutando il pastore in un crociato di ritorno da un lungo viaggio. E questo, naturalmente, crea un problema di verosimiglianza: un crociato del Duecento, benché circonfuso da un'aura spirituale, non avrebbe impiegato molto a fare a pezzi moglie ed amante. La nuova importanza data a Briano (un eremita che segue Aroldo come un'ombra, filiazione dello Jorg di Stiffelio) aggiusta il problema solo in parte; c'è perfino una scena-clou in cui Aroldo concede a Mina il divorzio (!). È pur vero che della scena della separazione si vede solo uno scheletro: un uomo e una donna che si lasciano pur amandosi e, già divisi, si spiegano per un'ultima volta. Quanto all'ultimo atto, è completamente nuovo, e il Finale dell'opera è musicalmente bello quanto pochi altri finali verdiani, teatralmente efficacissimo.

Pier Luigi Pizzi è un regista raffinato e l'allestimento funziona: ma secondo noi ha commesso un errore, riportando tutto all'inizio dell’Ottocento. Il protagonista diventa una sorta di colonnello Chabert, e quindi si laicizza ulteriormente. Vanno così perduti tutti i riferimenti religiosi che restano nel testo, e pur mantenuti nella scenografia (la croce del secondo e del quarto atto). Abbondano incongruenze come il coro che addita a Mina e Egberto, reduci da una tempesta, il luogo dove ci sono "due solitari"- ma nell'allestimento i "due solitari" vivono in un convento neoclassico con tanto di porticato e biblioteca; oppure il "luogo orribile" del II atto descritto da Mina quasi come il campo degli impiccati de Un Ballo in maschera, ma che nella scena è un civilissimo cimitero post-leggi napoleoniche, in un perfetto stile canoviano.

Tra le incongruenze previste da Verdi e quelle aggiunte da Pizzi, noi ci saremmo tenuti volentieri le incongruenze verdiane. Perché l'ultimo atto (come in fondo gli altri) deve "per forza" essere uguale al primo o ricordarne l'impianto visivo? Anche la tempesta ci è apparsa un po' sacrificata, benché benissimo suggerita dai giochi di luce. I registi d'opera sono a volte tanto prigionieri delle proprie idee da andare contro il testo drammatico-musicale, che pure è di un'evidenza palmare, almeno nel caso verdiano; per contraddirlo, considerando la minuzia con cui Verdi lavorava, bisognerebbe averne quasi la stessa statura di drammaturgo. Aroldo non è frequentemente allestita; l'idea di Pizzi di una commistione tra Aroldo e Stiffelio nuoce all'intelligibilità dell'opera: tutto il resto (le sottili allusioni, le simbologie dell’arredamento dello studio di Stiffelio, la raffinatezza del décor, la polita simmetria), benché sopraffino, è marginale. Per contro, un merito mai abbastanza lodato del regista è che gli attori si muovono sulla scena in modo semplice e plausibile. Il movimento dei corpi e la loro distribuzione nello spazio sono quanto mai curati.

Il direttore d'orchestra era Pier Giorgio Morandi, lunghissimo curriculum operistico. Eppure, benché abbia impresso sicuramente una "direzionalità" e quindi una sua personale interpretazione all'opera, ha trattato la musica verdiana in modo piuttosto frettoloso. Aroldo è infarcita di frasi lunghe ed ampie, di uno sviluppo melodico più sottile anche quando (come nella cabaletta di Mina) è virtuosistico, un'opera che si avverte rimaneggiata dopo le conquiste di Les Vêpres siciliennes. I cantanti ci sono sembrati poco sostenuti quando cercavano di dar respiro a questo fraseggio, soprattutto la brava, molto brava Adriana Damato. Voce non grandissima ma particolarmente espressiva, attenta alle dinamiche e alla pronuncia.
Ci si attendeva Fabio Armiliato nel ruolo del protagonista: invece, stanti i rigori del precoce inverno padano, è stato sostituito da Gustavo Porta, non all'altezza di un ruolo veramente difficilissimo tra i difficilissimi, tutto compresso com'’è nel registro medio e acuto, spesso sul passaggio, con frasi che troveremo un giorno molto simili in Otello. Un ruolo da attore, che deve incarnare un uomo fragile, inquieto, pronto all'ira come al perdono. Il baritono Franco Vassallo (applauditissimo) è il classico baritono col vocione; ovviamente tra cantabile e cabaletta il suo forte è quest'ultima. Ogni fa diventa occasione per un'esondazione vocale il che, spesso, non ha nulla a che vedere con la musica di Verdi. Bravo il basso Enrico Giuseppe Iori e appropriato il tenore comprimario Valter Borin nel ruolo dell'infame seduttore; gli altri hanno appena due note.

Resta da dire dell'Orchestra della Fondazione Toscanini, con alti e bassi ma complessivamente sufficiente. Il coro canta poco ma ha brani non facili, in cui deve cantare 'a freddo' come agli inizi degli atti primo e quarto: l'effetto è stato buono. Una menzione compiaciuta al Teatro di Piacenza: innanzitutto per la scelta del titolo che, come molte altre opere, sembra fatto apposta per essere messo in scena in spazi come questo, più che negli esorbitanti teatri delle grandi città. La visuale e l'acustica dalla platea sono ottime. Poco ci resta da dire, se non che abbiamo assistito a un bello spettacolo che ci ha commosso e interessato.


Aroldo
melodramma in quattro atti


cast cast & credits
 
trama trama






 





 



















 







 
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