Pachidermi nella cristalleria dei sentimenti
Tra il 1916 e il 1918, sullo sfondo della Grande Guerra, si consuma l'intensa e autodistruttiva relazione tra la poetessa Sibilla Aleramo (Laura Morante) e il giovane Dino Campana (Stefano Accorsi). Un amore reso immortale da un lungo epistolario e tragicamente concluso con la pazzìa di Campana.
Dopo il bellissimo e poco fortunato Del Perduto amore, Michele Placido, anche sceneggiatore, parte dall'epistolario tra i due scrittori e dalla affascinante ambientazione dell'Italia in guerra di quegli anni, quasi a farne un paradigma universale dell'amore che può sconvolgere una vita. Un tema universale, dunque, perfettamente valido anche per i nostri giorni se è vero che come interpreti principali ha scelto, con intelligenza, l'attore e l'attrice italiani più richiesti e celebrati del momento.
Centro della vicenda è Sibilla, donna colta e indipendente, con un passato terribile che la perseguita: un figlio strappatole e il ricordo di un padre forte e amato, che però l'ha cacciata di casa quand'era giovanissima. L'incontro con Dino, poeta anticonformista e per questo creduto pazzo nel suo paese tra gli Appennini, le rivela il grande amore, quello sognato da una vita.
E una passione così forte va urlata, sembra volerci suggerire Placido, vissuta con il sangue e le lacrime, a essa ci si deve attaccare con le unghie ed essere disposti a bruciarsi, pur di non perderla. Ma di questo, lo spettatore che colpa ne ha?
Dino Campana morì in un sanatorio per malati mentali, è vero, ma la serie di strepiti e isterismi osceni in cui si esibisce senza sosta il suo alter-ego Stefano Accorsi, sono degni della peggiore semplificazione emotiva hollywoodiana. Placido inciampa in tutti gli stereotipi delle biografie cinematografiche sui grandi artisti. Campana-Accorsi è folle (eppur grande amatore), geniale, compone intere poesie in attimi di illuminazione e picchia le donne e i bambini che non lo assecondano. Morante-Aleramo incassa ogni insulto e violenza, chiudendosi al massimo in pianti disperati.
Il film sceglie di portare avanti soltanto il confronto, schematicamente e banalizzato, tra le vite dei due protagonisti ma si astiene dallo spiegare il complesso legame che deve aver unito il tormento biografico di Campana alle proprie poesie.
Una produzione 'massiccia', a cura della Cattleya, specializzata in film di autori italiani ad alto budget, con la fotografia di Luca Bigazzi, raffinatissima come sempre, e ricostruzioni e costumi accurati. Ma restano banali note tecniche se il tormento e l'angoscia di un amore e della poesia sono resi accumulando sofferenze esibite impudicamente e scatti d'ira assordanti.
Dopo il bellissimo e poco fortunato Del Perduto amore, Michele Placido, anche sceneggiatore, parte dall'epistolario tra i due scrittori e dalla affascinante ambientazione dell'Italia in guerra di quegli anni, quasi a farne un paradigma universale dell'amore che può sconvolgere una vita. Un tema universale, dunque, perfettamente valido anche per i nostri giorni se è vero che come interpreti principali ha scelto, con intelligenza, l'attore e l'attrice italiani più richiesti e celebrati del momento.
Centro della vicenda è Sibilla, donna colta e indipendente, con un passato terribile che la perseguita: un figlio strappatole e il ricordo di un padre forte e amato, che però l'ha cacciata di casa quand'era giovanissima. L'incontro con Dino, poeta anticonformista e per questo creduto pazzo nel suo paese tra gli Appennini, le rivela il grande amore, quello sognato da una vita.
E una passione così forte va urlata, sembra volerci suggerire Placido, vissuta con il sangue e le lacrime, a essa ci si deve attaccare con le unghie ed essere disposti a bruciarsi, pur di non perderla. Ma di questo, lo spettatore che colpa ne ha?
Dino Campana morì in un sanatorio per malati mentali, è vero, ma la serie di strepiti e isterismi osceni in cui si esibisce senza sosta il suo alter-ego Stefano Accorsi, sono degni della peggiore semplificazione emotiva hollywoodiana. Placido inciampa in tutti gli stereotipi delle biografie cinematografiche sui grandi artisti. Campana-Accorsi è folle (eppur grande amatore), geniale, compone intere poesie in attimi di illuminazione e picchia le donne e i bambini che non lo assecondano. Morante-Aleramo incassa ogni insulto e violenza, chiudendosi al massimo in pianti disperati.
Il film sceglie di portare avanti soltanto il confronto, schematicamente e banalizzato, tra le vite dei due protagonisti ma si astiene dallo spiegare il complesso legame che deve aver unito il tormento biografico di Campana alle proprie poesie.
Una produzione 'massiccia', a cura della Cattleya, specializzata in film di autori italiani ad alto budget, con la fotografia di Luca Bigazzi, raffinatissima come sempre, e ricostruzioni e costumi accurati. Ma restano banali note tecniche se il tormento e l'angoscia di un amore e della poesia sono resi accumulando sofferenze esibite impudicamente e scatti d'ira assordanti.
Il regista Michele Placido
Cast & credits
Titolo
Un viaggio chiamato amore |
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Origine
Italia |
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Anno
2002 |
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Durata
96' |
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Colore | |
Soggetto
Heidrun Schleef; Diego Ribon; Michele Placido |
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Regia
Michele Placido |
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Interpreti
Laura Morante (Sibilla) Stefano Accorsi (Campana) Alessandro Haber (Andrea) Galatea Ranzi (Leonetta) Diego Ribon (Emilio) |
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Produttori
Riccardo Tozzi / Giovanni Stabilini / Marco Chimenz |
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Produzione
Cattleya / Rai Cinema in collaborazione con Stream |
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Distribuzione
Intramovies / 01 Distribution |
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Scenografia
Giuseppe Pirrotta |
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Costumi
Elena Mannini |
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Sceneggiatura
Heidrun Schleef; Diego Ribon; Michele Placido |
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Montaggio
Esmeralda Calabria |
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Fotografia
Luca Bigazzi |
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Suono
Remo Ugolinelli |
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Musiche
Carlo Crivelli |