Il musicista e i fuoriusciti
Sono molti i motivi d'interesse in questa riproposta del raro Marino Faliero di Gaetano Donizetti, realizzata dal Regio di Parma e recentemente ripresa dalla Fenice di Venezia al Teatro Malibran. Nella carriera di Donizetti, l'opera è la prima espressamente composta per Parigi; segue o è coeva ad altre di soggetto storico, come Parisina, Lucrezia Borgia, Maria Stuarda, Gemma di Vergy. La commissione era del Théâtre Italien, di cui nel 1834- 1835 Gioachino Rossini era sempre il nume, pur avendone ceduto nominalmente la direzione a Edouard Robert e Carlo Severini: ciò dimostra la stima e l'attenzione di Rossini per un compositore che forse aveva meno carte per piacere ai parigini di Vincenzo Bellini, che per il Théâtre Italien andava creando, proprio allora, i Puritani, che andarono in scena il 24 gennaio e il cui successo straordinario schiacciò il Faliero.
Le modifiche apportate a Parigi (fra il gennaio del 1835 e la prima) da Donizetti alla stesura originaria dell'opera, realizzata in Italia nella seconda metà del 1834, sembrano volerle conferire più mordente drammatico. Se davvero, come risulta, fu Rossini a dare suggerimenti in tal senso, verrebbe fatto di pensare che il pesarese volesse incoraggiare il misconosciuto Donizetti a proseguire sulla strada del dramma musicale romantico di concezione moderna, strada che, per quanto lo riguardava, aveva trovato nel Tell una tappa definitiva, o, se si vuole, un confine oltre il quale non procedere. La sceneggiatura e il libretto del siciliano Giovanni Emanuele Bidera vennero pertanto rimaneggiati a Parigi dall'esule mazziniano Agostino Ruffini (il cui fratello Giovanni avrebbe scritto di lì a qualche anno il libretto del Don Pasquale, sempre per il Théatre Italien, senza peraltro contentare Donizetti che quel libretto lo modificò largamente).
Marino Faliero è tratto dalla tragedia omonima di Casimir Delavigne (Parigi 1829, pubblicata in Italia nella traduzione di Luigi Raspi), basata sulla vicenda del doge veneziano condannato a morte e decapitato il 17 aprile del 1355 per aver ordito un complotto - fallito per la delazione di uno dei congiurati - allo scopo di instaurare a Venezia una signoria. A sua volta, Delavigne si appoggiava alla tragedia di Byron (Londra, 1821). Come fonte storica si indicano le Vite dei Dogi scritte alla fine del XV secolo da Marin Sanudo il Giovane; ma ancor più evidenti sono i debiti con la fosca leggenda di una Serenissima pullulante di spie e poteri segreti - una feroce, occhiuta, insidiosissima tirannia di poche famiglie, travestita da Repubblica - divulgata in età moderna soprattutto dalla celebre Histoire du gouvernement de Venise di Amelot de la Houssaye, testo ricordato nelle lettere italiane soprattutto per la confutazione che ne fece Giacomo Casanova in difesa delle istituzioni repubblicane di Venezia.
Che tutto ciò sia storicamente fondato o meno, è evidente che ci troviamo avvolti in una delle tenebrose e intramontabili "storie italiane" (intrighi, congiure, vendette, veleni) che fornirono sfondi e trame alla drammaturgia elisabettiana e giacobita e al romanzo gotico prima che al dramma romantico. Che fosse un soggetto ricco d'interesse lo dimostrano anche le tele di Francesco Hayez ad esso ispirate (Il doge Marino Faliero accusa il giovane Steno; Gli ultimi momenti del doge Marino Faliero), riprodotte nell'ottimo ed esauriente programma di sala della Fenice, che contiene molta documentazione e gli scritti di Michele Giraldi, Giorgio Pagannone, Gianni Ruffin, Paolo Fabbri, Francesco Bellotto, Guido Paduano, Roberto Campanella, Mirko Schipilliti, nonché la versione originale del libretto di Emanuele Bidera a cura di Maria Chiara Bertieri.
D'altra parte, l'opposizione nobili/popolani in un'antica repubblica italiana, l'avere al proprio centro una figura storica possente e controversa, fa del Marino Faliero una sorta di opera politica e di antecedente diretto del Simon Boccanegra. Ma nel Boccanegra il dramma della storia si risolve nel tema tipicamente verdiano della paternità, e la morte di Simone è serena sullo sfondo di una città pacificata. Invece alla fine del Faliero troviamo un nodo di insormontabile amarezza: il popolo è stato schiacciato, il protagonista, mentre si appresta a salire sul patibolo, deve affrontare una durissima verità, la rivelazione dei sentimenti traviati della propria giovane moglie. Pochi finali d'opera sono così poco consolatori: l'opera si chiude con una sorta di confessione di impotenza del belcanto, tagliando dalla scena finale Faliero - Elena la cabaletta del soprano prevista nel piano originario. La dilatazione del ritmo drammatico che sublima la tragedia in melodia è impedita, e al pubblico non resta che aspettare, assieme all'ammutolita Elena, la scure che, ovviamente fuori scena, tronca la testa al Doge.
Non è solo questo finale a risultare anomalo rispetto alle "convenienze teatrali": i critici parigini rilevarono con disappunto che il tenore, che oltretutto era il famoso Rubini, moriva troppo presto; che il colore del Faliero era troppo cupo ed uniforme; che non si può fare un atto intero (il secondo) senza donne; che le motivazioni politiche avevano troppo spazio a scapito dell'amore. Ma la politicità del Faliero, non gradita ai critici né al pubblico, qualcuno doveva pur apprezzarla. Si ascolta il Faliero e ci si ritrova a pensare alla Parigi delle Tre Gloriose Giornate del luglio 1830 immortalate da Delacroix, dei moti del giugno 1832, quelli sulle cui barricate muore Gavroche nei Miserabili; la Parigi degli esuli italiani, dei fuorusciti di spicco, come Carlo Pepoli (il librettista dei Puritani), Mario de Candia e Gustavo Modena. Infatti Giuseppe Mazzini, nella Filosofia della musica (Parigi 1836; l'edizione moderna è a cura di Marcello De Angelis), lodò l'opera, in quanto molto corale, molto "filosofica" (che, nel lessico critico del tempo, significa capace di esprimere tensioni etiche, passioni, conflitti più ampi e universali rispetto ai soliti nodi amorosi), tale da articolare meglio la morfologia musicale consueta, lasciando spazio al declamato più che all'aria, dunque alla definizione aperta e accurata della psicologia e delle motivazioni dei personaggi.
Dietro al Marino Faliero sembra dunque di intuire un ambiente teatrale e politico che ha orecchiato o condiviso con ardore certe battaglie (teatrali e non solo), e cerca di riportarne i contenuti anche nell'opera italiana. E' evidente il tentativo di mescolare, alla Victor Hugo, le carte dell'invenzione, alla ricerca di una sorta di Sublime storico capace di abbracciare un po' tutto, velocizzando la sceneggiatura del dramma, valorizzandone la coralità, sfruttando il "colore dei tempi", giocando arditamente sui contrasti (come rilevò Giuseppe Mazzini lodando "il ballo veramente de' tempi nel finale dell'atto primo, a cui s'intreccia con tanta scienza il dialogo declamato fra Faliero e Bertucci"), e azzardando, fra i tanti registri, anche quello "popolare" degli arsenalotti capeggiati da Israele Bertucci. Tutto questo si traduce in un taglio drammaturgico indubbiamente interessante, che sul piano musicale si realizza peraltro in un'adesione ancora profonda all'istanza belcantistica, e soprattutto in una morfologia che resta pur sempre quella: la famosa "solita forma" in quattro tempi (tempo d'attacco - cantabile - tempo di mezzo - cabaletta), buona da Rossini al Verdi della trilogia popolare e oltre, ancorché camuffata, velocizzata (però anche capace di digressioni e omaggi, come il fuoriscena del gondoliere che ricorda l'Otello di Rossini), arricchita di risposte corali e intrecci di dialogo.
Ma bisogna pur ammettere che il Marino Faliero ha molti limiti. Lasciamo pure da parte la versificazione banale e velleitaria del libretto, soprattutto nella parte di Israele Bertucci e nei cori degli arsenalotti cospiratori, fin dal coro d'apertura: "Issa, issa, issa là": soprattutto alla mano di Ruffini dobbiamo ascrivere una vera orgia di ottonari pesantemente cadenzati, come se risultasse particolarmente difficile da maneggiare e tradurre in linguaggio operistico proprio quella componente politica, popolare, di opera corale, che Mazzini lodò e i recensori francesi criticarono. "Gli Ungheresi ! gli Ungheresi ! / Da ogni lato ecco siam presi" (atto I, scena 1°); "Siamo vili e fummo prodi / quando in Zara quando in Rodi" (atto III, scena 7°): roba così (per questo sua prima opera scritta espressamente per Parigi, il povero Donizetti aveva desiderato invano un libretto da Felice Romani...). Ma anche volgendoci alla musica, è come se questa sanguigna miscela da dramma storico incalzasse troppo da vicino l'invenzione musicale, a cui mancano proprio le geniali trasfigurazioni musicali e il colore autentico, psicologico prima che storico, di una Lucia di Lammermoor; che verrà del resto a pochi mesi dal Faliero, quando Donizetti il proprio romanticismo nervoso e visionario lo farà meglio vibrare per simpatia con le corde più distese, più malinconiche ed elegiache, del romanzo di Walter Scott.
Quella vista al Malibran è un'edizione complessivamente pregevole. Bruno Campanella è un direttore molto pratico, di passo complessivamente spedito e di mestiere sicuro, ma non tale da saper imprimere respiro, flessuosità, poesia, insomma "necessità", al succedersi degli accompagnamenti e degli schemi ritmici usuali della già citata "solita forma", che proprio perché è la solita andrebbe sempre reinventata... La messinscena non badava a stupire ma funzionava. La lineare regia di Daniele Abbado sbrigava senza crucci ma con la consueta chiarezza i nodi drammatici più difficili, ad esempio il sovrapporsi delle azioni nella scena della festa (trovando il tono giusto per le sue inquietanti atmosfere), e ricorreva ad un mezzo semplice ma eccellente per suggerire l'ambientazione veneziana: un fondale trasparente su cui le azioni dei personaggi e del coro si riflettevano in un tremolìo come di acque. Le scene di Gianni Carluccio e i costumi di Gianna Teti realizzavano un'equilibrata miscela fra un gusto linare e moderno dell'allestimento e le suggestioni dell'immaginario pittorico gotico-romantico.
E veniamo al cast. Le quattro parti principali del Marino Faliero furono scritte per il famoso "quartetto dei Puritani", ossia il soprano Giulia Grisi (Elena), il tenore Giovan Battista Rubini (Fernando), i bassi Luigi Lablache (Faliero) e Antonio Tamburini (Israele Bertucci, propriamente un baritono). Come notava Mazzini l'originalità del Faliero sta anche nel "filosofico" (vedi sopra) e grandioso confronto fra i due personaggi di Faliero e Bertucci, il doge e il popolano, e l'esecuzione si giovava molto del contrasto fra due voci e maniere di cantare: intenso, fosco, amaro, ma sempre composto, Michele Pertusi, più estroverso e sanguigno, più "baritono", Roberto Servile, tutti e due in ottima forma vocale. Mariella Devia è stata un'Elena semplicemente splendida: totalmente a suo agio nella prestazione belcantistica, in cui riesce a farci vivere le emozioni della perfezione, esaltandole, oggi più che mai, in un perfetto dosaggio di accenti e di acmi; mantenendo quel che di delicato, malinconico e lunare che la sua voce ha sempre avuto, ma avvalendosi con maestria dell'intensità dei "centri" che anno dopo anno si stanno naturalmente e magnificamente rafforzando. Rockwell Blake doveva qui realizzare un ruolo creato su Rubini, cantante legato alla tipologia tenorile preromantica, o meglio pre-Gilbert Duprez (acuti non di petto, agilità, grazia); d'altra parte Blake, divenuto famoso, non a caso, distinguendosi nella pirotecnica vocalità rossiniana, non ha oggi eleganza, distinzione, bellezza timbrica e intelligenza scenica sufficienti a contrastare l'usura del tempo e la qualità oramai spiacevole di certi fasetti. Con tutto ciò abbiamo ammirato la solidità di nervi e il professionismo con cui Blake, contestato fin dalla prima cabaletta dal pubblico (che come al solito in Italia ai tenori non lascia passare niente), ha tenuto duro per tutta la recita. Molto bene anche Enrico Giuseppe Iori (Steno) e Massimiliano Tonsini (Leoni). Ottimo successo.
Le modifiche apportate a Parigi (fra il gennaio del 1835 e la prima) da Donizetti alla stesura originaria dell'opera, realizzata in Italia nella seconda metà del 1834, sembrano volerle conferire più mordente drammatico. Se davvero, come risulta, fu Rossini a dare suggerimenti in tal senso, verrebbe fatto di pensare che il pesarese volesse incoraggiare il misconosciuto Donizetti a proseguire sulla strada del dramma musicale romantico di concezione moderna, strada che, per quanto lo riguardava, aveva trovato nel Tell una tappa definitiva, o, se si vuole, un confine oltre il quale non procedere. La sceneggiatura e il libretto del siciliano Giovanni Emanuele Bidera vennero pertanto rimaneggiati a Parigi dall'esule mazziniano Agostino Ruffini (il cui fratello Giovanni avrebbe scritto di lì a qualche anno il libretto del Don Pasquale, sempre per il Théatre Italien, senza peraltro contentare Donizetti che quel libretto lo modificò largamente).
Marino Faliero è tratto dalla tragedia omonima di Casimir Delavigne (Parigi 1829, pubblicata in Italia nella traduzione di Luigi Raspi), basata sulla vicenda del doge veneziano condannato a morte e decapitato il 17 aprile del 1355 per aver ordito un complotto - fallito per la delazione di uno dei congiurati - allo scopo di instaurare a Venezia una signoria. A sua volta, Delavigne si appoggiava alla tragedia di Byron (Londra, 1821). Come fonte storica si indicano le Vite dei Dogi scritte alla fine del XV secolo da Marin Sanudo il Giovane; ma ancor più evidenti sono i debiti con la fosca leggenda di una Serenissima pullulante di spie e poteri segreti - una feroce, occhiuta, insidiosissima tirannia di poche famiglie, travestita da Repubblica - divulgata in età moderna soprattutto dalla celebre Histoire du gouvernement de Venise di Amelot de la Houssaye, testo ricordato nelle lettere italiane soprattutto per la confutazione che ne fece Giacomo Casanova in difesa delle istituzioni repubblicane di Venezia.
Che tutto ciò sia storicamente fondato o meno, è evidente che ci troviamo avvolti in una delle tenebrose e intramontabili "storie italiane" (intrighi, congiure, vendette, veleni) che fornirono sfondi e trame alla drammaturgia elisabettiana e giacobita e al romanzo gotico prima che al dramma romantico. Che fosse un soggetto ricco d'interesse lo dimostrano anche le tele di Francesco Hayez ad esso ispirate (Il doge Marino Faliero accusa il giovane Steno; Gli ultimi momenti del doge Marino Faliero), riprodotte nell'ottimo ed esauriente programma di sala della Fenice, che contiene molta documentazione e gli scritti di Michele Giraldi, Giorgio Pagannone, Gianni Ruffin, Paolo Fabbri, Francesco Bellotto, Guido Paduano, Roberto Campanella, Mirko Schipilliti, nonché la versione originale del libretto di Emanuele Bidera a cura di Maria Chiara Bertieri.
D'altra parte, l'opposizione nobili/popolani in un'antica repubblica italiana, l'avere al proprio centro una figura storica possente e controversa, fa del Marino Faliero una sorta di opera politica e di antecedente diretto del Simon Boccanegra. Ma nel Boccanegra il dramma della storia si risolve nel tema tipicamente verdiano della paternità, e la morte di Simone è serena sullo sfondo di una città pacificata. Invece alla fine del Faliero troviamo un nodo di insormontabile amarezza: il popolo è stato schiacciato, il protagonista, mentre si appresta a salire sul patibolo, deve affrontare una durissima verità, la rivelazione dei sentimenti traviati della propria giovane moglie. Pochi finali d'opera sono così poco consolatori: l'opera si chiude con una sorta di confessione di impotenza del belcanto, tagliando dalla scena finale Faliero - Elena la cabaletta del soprano prevista nel piano originario. La dilatazione del ritmo drammatico che sublima la tragedia in melodia è impedita, e al pubblico non resta che aspettare, assieme all'ammutolita Elena, la scure che, ovviamente fuori scena, tronca la testa al Doge.
Non è solo questo finale a risultare anomalo rispetto alle "convenienze teatrali": i critici parigini rilevarono con disappunto che il tenore, che oltretutto era il famoso Rubini, moriva troppo presto; che il colore del Faliero era troppo cupo ed uniforme; che non si può fare un atto intero (il secondo) senza donne; che le motivazioni politiche avevano troppo spazio a scapito dell'amore. Ma la politicità del Faliero, non gradita ai critici né al pubblico, qualcuno doveva pur apprezzarla. Si ascolta il Faliero e ci si ritrova a pensare alla Parigi delle Tre Gloriose Giornate del luglio 1830 immortalate da Delacroix, dei moti del giugno 1832, quelli sulle cui barricate muore Gavroche nei Miserabili; la Parigi degli esuli italiani, dei fuorusciti di spicco, come Carlo Pepoli (il librettista dei Puritani), Mario de Candia e Gustavo Modena. Infatti Giuseppe Mazzini, nella Filosofia della musica (Parigi 1836; l'edizione moderna è a cura di Marcello De Angelis), lodò l'opera, in quanto molto corale, molto "filosofica" (che, nel lessico critico del tempo, significa capace di esprimere tensioni etiche, passioni, conflitti più ampi e universali rispetto ai soliti nodi amorosi), tale da articolare meglio la morfologia musicale consueta, lasciando spazio al declamato più che all'aria, dunque alla definizione aperta e accurata della psicologia e delle motivazioni dei personaggi.
Dietro al Marino Faliero sembra dunque di intuire un ambiente teatrale e politico che ha orecchiato o condiviso con ardore certe battaglie (teatrali e non solo), e cerca di riportarne i contenuti anche nell'opera italiana. E' evidente il tentativo di mescolare, alla Victor Hugo, le carte dell'invenzione, alla ricerca di una sorta di Sublime storico capace di abbracciare un po' tutto, velocizzando la sceneggiatura del dramma, valorizzandone la coralità, sfruttando il "colore dei tempi", giocando arditamente sui contrasti (come rilevò Giuseppe Mazzini lodando "il ballo veramente de' tempi nel finale dell'atto primo, a cui s'intreccia con tanta scienza il dialogo declamato fra Faliero e Bertucci"), e azzardando, fra i tanti registri, anche quello "popolare" degli arsenalotti capeggiati da Israele Bertucci. Tutto questo si traduce in un taglio drammaturgico indubbiamente interessante, che sul piano musicale si realizza peraltro in un'adesione ancora profonda all'istanza belcantistica, e soprattutto in una morfologia che resta pur sempre quella: la famosa "solita forma" in quattro tempi (tempo d'attacco - cantabile - tempo di mezzo - cabaletta), buona da Rossini al Verdi della trilogia popolare e oltre, ancorché camuffata, velocizzata (però anche capace di digressioni e omaggi, come il fuoriscena del gondoliere che ricorda l'Otello di Rossini), arricchita di risposte corali e intrecci di dialogo.
Ma bisogna pur ammettere che il Marino Faliero ha molti limiti. Lasciamo pure da parte la versificazione banale e velleitaria del libretto, soprattutto nella parte di Israele Bertucci e nei cori degli arsenalotti cospiratori, fin dal coro d'apertura: "Issa, issa, issa là": soprattutto alla mano di Ruffini dobbiamo ascrivere una vera orgia di ottonari pesantemente cadenzati, come se risultasse particolarmente difficile da maneggiare e tradurre in linguaggio operistico proprio quella componente politica, popolare, di opera corale, che Mazzini lodò e i recensori francesi criticarono. "Gli Ungheresi ! gli Ungheresi ! / Da ogni lato ecco siam presi" (atto I, scena 1°); "Siamo vili e fummo prodi / quando in Zara quando in Rodi" (atto III, scena 7°): roba così (per questo sua prima opera scritta espressamente per Parigi, il povero Donizetti aveva desiderato invano un libretto da Felice Romani...). Ma anche volgendoci alla musica, è come se questa sanguigna miscela da dramma storico incalzasse troppo da vicino l'invenzione musicale, a cui mancano proprio le geniali trasfigurazioni musicali e il colore autentico, psicologico prima che storico, di una Lucia di Lammermoor; che verrà del resto a pochi mesi dal Faliero, quando Donizetti il proprio romanticismo nervoso e visionario lo farà meglio vibrare per simpatia con le corde più distese, più malinconiche ed elegiache, del romanzo di Walter Scott.
Quella vista al Malibran è un'edizione complessivamente pregevole. Bruno Campanella è un direttore molto pratico, di passo complessivamente spedito e di mestiere sicuro, ma non tale da saper imprimere respiro, flessuosità, poesia, insomma "necessità", al succedersi degli accompagnamenti e degli schemi ritmici usuali della già citata "solita forma", che proprio perché è la solita andrebbe sempre reinventata... La messinscena non badava a stupire ma funzionava. La lineare regia di Daniele Abbado sbrigava senza crucci ma con la consueta chiarezza i nodi drammatici più difficili, ad esempio il sovrapporsi delle azioni nella scena della festa (trovando il tono giusto per le sue inquietanti atmosfere), e ricorreva ad un mezzo semplice ma eccellente per suggerire l'ambientazione veneziana: un fondale trasparente su cui le azioni dei personaggi e del coro si riflettevano in un tremolìo come di acque. Le scene di Gianni Carluccio e i costumi di Gianna Teti realizzavano un'equilibrata miscela fra un gusto linare e moderno dell'allestimento e le suggestioni dell'immaginario pittorico gotico-romantico.
E veniamo al cast. Le quattro parti principali del Marino Faliero furono scritte per il famoso "quartetto dei Puritani", ossia il soprano Giulia Grisi (Elena), il tenore Giovan Battista Rubini (Fernando), i bassi Luigi Lablache (Faliero) e Antonio Tamburini (Israele Bertucci, propriamente un baritono). Come notava Mazzini l'originalità del Faliero sta anche nel "filosofico" (vedi sopra) e grandioso confronto fra i due personaggi di Faliero e Bertucci, il doge e il popolano, e l'esecuzione si giovava molto del contrasto fra due voci e maniere di cantare: intenso, fosco, amaro, ma sempre composto, Michele Pertusi, più estroverso e sanguigno, più "baritono", Roberto Servile, tutti e due in ottima forma vocale. Mariella Devia è stata un'Elena semplicemente splendida: totalmente a suo agio nella prestazione belcantistica, in cui riesce a farci vivere le emozioni della perfezione, esaltandole, oggi più che mai, in un perfetto dosaggio di accenti e di acmi; mantenendo quel che di delicato, malinconico e lunare che la sua voce ha sempre avuto, ma avvalendosi con maestria dell'intensità dei "centri" che anno dopo anno si stanno naturalmente e magnificamente rafforzando. Rockwell Blake doveva qui realizzare un ruolo creato su Rubini, cantante legato alla tipologia tenorile preromantica, o meglio pre-Gilbert Duprez (acuti non di petto, agilità, grazia); d'altra parte Blake, divenuto famoso, non a caso, distinguendosi nella pirotecnica vocalità rossiniana, non ha oggi eleganza, distinzione, bellezza timbrica e intelligenza scenica sufficienti a contrastare l'usura del tempo e la qualità oramai spiacevole di certi fasetti. Con tutto ciò abbiamo ammirato la solidità di nervi e il professionismo con cui Blake, contestato fin dalla prima cabaletta dal pubblico (che come al solito in Italia ai tenori non lascia passare niente), ha tenuto duro per tutta la recita. Molto bene anche Enrico Giuseppe Iori (Steno) e Massimiliano Tonsini (Leoni). Ottimo successo.
Bozzetti di Domenico Ferri per la prima rappresentazione dell'opera
Cast & credits
Titolo
Marino Faliero |
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Sotto titolo
azione tragica in tre atti |
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Data rappresentazione
22/06/2003 |
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Città rappresentazione
Venezia |
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Luogo rappresentazione
teator Malibran |
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Prima rappresentazione
Parigi, Théâtre Italien, 12 marzo 1835 |
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Titolo testo d'origine
Marino Faliero |
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Libretto
Giovanni Emanuele Bidera |
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Autori testo d'origine
Charles Delavigne |
|
Regia
Daniele Abbado |
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Interpreti
Michele Pertusi (Faliero) Roberto Servile (Bertucci) Rockwell Blake (Fernando) Enrico Giuseppe Iori (Steno) Massimiliano Tonsini (Leoni) Mariella Devia (Elena) Elisabetta Martorana (Irene) Enrico Masiero (Vincenzo) Christian Ricci (un gondoliere) Cosimo Diano (Beltrame) Franco Boscolo (Pietro) Luca Favaron (un figlio di Bertucci) Roberto Menegazzo (altro figlio di Bertucci) Massimiliano Liva (altro figlio di Bertucci) Antonio Casagrande (un sacerdote) |
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Scenografia
Carlo Carluccio |
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Costumi
Carla Teti |
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Coreografia
Giovanni Di Cicco |
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Luci
Guido Levi |
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Musiche
Gaetano Donizetti |
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Orchestra
teator La Fenice |
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Direzione d'orchestra
Bruno Campanella |
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Coro
teatro La Fenice, coro dell'Ater |
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Maestro del coro
Piero Monti |
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Note
Regista collaboratore: Boris Stetka |
Trama
Atto I: Venezia 1355. I lavoratori dell'Arsenale capeggiati da Israele Bertucci commentano con sdegno la notizia dell'apparizione di scritte calunniose contro Elena, la giovane moglie del doge Marin Faliero: il colpevole, il giovane e arrogante patrizio Steno, sopraggiunge, e insulta duramente gli operai. Arriva poi il doge. Israele, vecchio compagno d'armi di Faliero, al cui fianco ha difeso i possedimenti della Repubblica sull'Adriatico, lo convince ad appoggiare una rivolta contro il Consiglio dei Dieci, roccaforte del potere nobiliare. Nel palazzo dogale, Elena, innamorata di Fernando, nipote di Faliero, ha un colloquio con il giovane, che vuol fuggire da Venezia per non mettere ulteriormente a rischio il buon nome della donna. Elena gli lascia capire il suo amore e gli dona una sciarpa in suo ricordo. Nel palazzo di Leoni, uno dei Dieci, si svolge una festa in maschera, durante la quale Faliero ha un nuovo abboccamento con i congiurati. Elena è importunata da un uomo in maschera, che si scopre essere Steno, che viene sfidato a duello da Fernando, recatosi alla festa per vedere un'ultima volta la donna amata.
Atto II: Nella piazza dei SS. Giovanni e Paolo si incontrano Faliero, Bertucci e gli altri congiurati. Un rumore di armi fa capire che è in corso un duello, e poco dopo sopraggiunge, morente, Fernando, che, dopo aver denunciato il suo assassino, Steno, chiede di essere sepolto con il volto coperto dalla sciarpa che ha con sé. Faliero giura di vendicarlo.
Atto III: Elena ha un incubo e si sveglia di soprassalto; sopraggiunge Faliero annunciandole la morte di Fernando e la prossima rivolta. Ma i congiurati sono stati traditi: giunge Leoni, e il doge è tratto in arresto. Nella sala del Consiglio dei Dieci Faliero è invitato a discolparsi, ma rifiuta, quindi riconosce dietro le sbarre Israele Bertucci, condannato a morte insieme agli altri congiurati. Faliero chiede un ultimo colloquio con Elena, in cui la prega di essere seppellito accanto a Fernando, e che la sciarpa che il giovane aveva con sé copra i loro volti. Davanti a questa rivelazione Elena confessa il suo colpevole amore: dopo essere stato in procinto di maledirla, Faliero la perdona e viene condotto al patibolo. Elena assiste impotente all'esecuzione e mentre la scure uccide Faliero cade svenuta.
Atto II: Nella piazza dei SS. Giovanni e Paolo si incontrano Faliero, Bertucci e gli altri congiurati. Un rumore di armi fa capire che è in corso un duello, e poco dopo sopraggiunge, morente, Fernando, che, dopo aver denunciato il suo assassino, Steno, chiede di essere sepolto con il volto coperto dalla sciarpa che ha con sé. Faliero giura di vendicarlo.
Atto III: Elena ha un incubo e si sveglia di soprassalto; sopraggiunge Faliero annunciandole la morte di Fernando e la prossima rivolta. Ma i congiurati sono stati traditi: giunge Leoni, e il doge è tratto in arresto. Nella sala del Consiglio dei Dieci Faliero è invitato a discolparsi, ma rifiuta, quindi riconosce dietro le sbarre Israele Bertucci, condannato a morte insieme agli altri congiurati. Faliero chiede un ultimo colloquio con Elena, in cui la prega di essere seppellito accanto a Fernando, e che la sciarpa che il giovane aveva con sé copra i loro volti. Davanti a questa rivelazione Elena confessa il suo colpevole amore: dopo essere stato in procinto di maledirla, Faliero la perdona e viene condotto al patibolo. Elena assiste impotente all'esecuzione e mentre la scure uccide Faliero cade svenuta.