Un Verdi "minore"?
Un grande successo ha accolto l'altra sera [13 maggio 2003], al Teatro degli Arcimboldi, la rappresentazione dei Due Foscari che Riccardo Muti dirigeva per la prima volta. È la sesta opera di Verdi. Tratta da Byron, sta al centro di quella produzione frettolosa, svolta sotto il pungolo di un mercato che fagocitava novità a getto continuo, ed esigeva una grande velocità di produzione. Verdi non aveva tempo di pensare troppo: lasciava scorrere una torrenziale corrente di musica, magari torbida e ingombra da detriti, su libretti poco meditati, fatti di situazioni sommarie, meccanici colpi di scena, effetti ed effettacci che scaricavano sul pubblico vere e proprie iniezioni di adrenalina. "Teatro", scriveva Mila, non "dramma": ma intanto l'opera italiana subiva una scossa rigenerante.
In questa produzione I due Foscari occupano, però, una posizione particolare. Il colorito plumbeo, le atmosfere soffuse, hanno indubbiamente una loro cifra; alcuni temi drammatici come lo scontro tra individuo e potere, il peso del comando, il rapporto tra padri e figli cominciano ad annidarsi nella fantasia di Verdi, in attesa di fruttificare nel modo che sappiamo, mentre l'amore, tema sino allora centrale nel teatro d'opera, è spostato in secondo piano. Insomma, i Due Foscari sono un lavoro denso di presagi che l'esecuzione diretta da Muti ha fatto di tutto per valorizzare, facendo sentire che qua e là cominciano ad affiorare novità straordinarie, gli embrioni di futuri colpi di genio.
Per esempio, la strumentazione. In questa partitura è piuttosto ricercata: Muti dirige il preludio come se fosse Brahms, tratta la curiosa introduzione alla scena del carcere con l'assolo di viola e violoncello, come un adagio di Haydn, e ottiene dall'Orchestra e dal Coro della Scala (istruito da Bruno Casoni), un suono di qualità altissima e di un'eleganza capace di nobilitare anche le pagine più corrive. Ciò che fa la differenza tra quest'opera e l'Ernani, per cui i Due Foscari non è mai stata e mai sarà popolare, è la mancanza di vere grandi e belle melodie, quelle che Verdi sa trovare nei suoi capolavori e connetterle in modo indelebile con personaggi e situazioni. Ma in quest'esecuzione la tensione del canto vocale ed orchestrale è tale che quella mancanza s'avverte di meno. Bastava sentire come Leo Nucci ha cantato la grande aria di compianto del Doge per il figlio che gli è stato sottratto, attirandosi un uragano di applausi. Non è ancora Rigoletto, d'accordo, ma Nucci e Muti hanno fatto miracoli per farci capire che l'idea di quel conflitto interiore nasce lì. Ancora superiore dal punto di vista vocale è sembrato il tenore Francisco Casanova nella parte di Jacopo: la figura è statica, ma la voce, giovane e fresca, corre e illumina tutto il teatro. Dimitra Theodossiu è stata una buona Lucrezia. Ha cominciato con voce oscillante, poi si è rinfrancata e, specie nel canto legato nel registro medio, è apparsa intensa e commovente. Gli acuti, però, sono talvolta forzati: se riuscisse ad ammorbidirli, la sua voce balzerebbe alla ribalta tra le più interessanti.
La regia di Cesare Lievi lavora poco sugli attori, che abbandona sovente ai gesti convenzionali del melodramma. D'altra parte, con quelle situazioni così schematiche e talvolta burattinesche non c'è molto da sbizzarrirsi. Più interessante, invece, la scenografia di Maurizio Balò, con grandi cornici rettangolari diversamente riempite da quadri, inferriate, finestre. Il colorito è scuro, reso bene dalle belle luci di Luigi Saccomandi, il che rispecchia la tinta fondamentale dell'opera. Manca però qualsiasi accenno a Venezia né ci sono le vedute all'aperto prescritte nel libretto. Un'assenza che rende il tutto un po' soffocante e non giova al respiro della partitura: quando Verdi, infatti, prescriveva aria fresca, lo faceva a ragion veduta, ed è sempre rischioso ignorarlo.
[Da "La Stampa" del 14 maggio 2003]
In questa produzione I due Foscari occupano, però, una posizione particolare. Il colorito plumbeo, le atmosfere soffuse, hanno indubbiamente una loro cifra; alcuni temi drammatici come lo scontro tra individuo e potere, il peso del comando, il rapporto tra padri e figli cominciano ad annidarsi nella fantasia di Verdi, in attesa di fruttificare nel modo che sappiamo, mentre l'amore, tema sino allora centrale nel teatro d'opera, è spostato in secondo piano. Insomma, i Due Foscari sono un lavoro denso di presagi che l'esecuzione diretta da Muti ha fatto di tutto per valorizzare, facendo sentire che qua e là cominciano ad affiorare novità straordinarie, gli embrioni di futuri colpi di genio.
Per esempio, la strumentazione. In questa partitura è piuttosto ricercata: Muti dirige il preludio come se fosse Brahms, tratta la curiosa introduzione alla scena del carcere con l'assolo di viola e violoncello, come un adagio di Haydn, e ottiene dall'Orchestra e dal Coro della Scala (istruito da Bruno Casoni), un suono di qualità altissima e di un'eleganza capace di nobilitare anche le pagine più corrive. Ciò che fa la differenza tra quest'opera e l'Ernani, per cui i Due Foscari non è mai stata e mai sarà popolare, è la mancanza di vere grandi e belle melodie, quelle che Verdi sa trovare nei suoi capolavori e connetterle in modo indelebile con personaggi e situazioni. Ma in quest'esecuzione la tensione del canto vocale ed orchestrale è tale che quella mancanza s'avverte di meno. Bastava sentire come Leo Nucci ha cantato la grande aria di compianto del Doge per il figlio che gli è stato sottratto, attirandosi un uragano di applausi. Non è ancora Rigoletto, d'accordo, ma Nucci e Muti hanno fatto miracoli per farci capire che l'idea di quel conflitto interiore nasce lì. Ancora superiore dal punto di vista vocale è sembrato il tenore Francisco Casanova nella parte di Jacopo: la figura è statica, ma la voce, giovane e fresca, corre e illumina tutto il teatro. Dimitra Theodossiu è stata una buona Lucrezia. Ha cominciato con voce oscillante, poi si è rinfrancata e, specie nel canto legato nel registro medio, è apparsa intensa e commovente. Gli acuti, però, sono talvolta forzati: se riuscisse ad ammorbidirli, la sua voce balzerebbe alla ribalta tra le più interessanti.
La regia di Cesare Lievi lavora poco sugli attori, che abbandona sovente ai gesti convenzionali del melodramma. D'altra parte, con quelle situazioni così schematiche e talvolta burattinesche non c'è molto da sbizzarrirsi. Più interessante, invece, la scenografia di Maurizio Balò, con grandi cornici rettangolari diversamente riempite da quadri, inferriate, finestre. Il colorito è scuro, reso bene dalle belle luci di Luigi Saccomandi, il che rispecchia la tinta fondamentale dell'opera. Manca però qualsiasi accenno a Venezia né ci sono le vedute all'aperto prescritte nel libretto. Un'assenza che rende il tutto un po' soffocante e non giova al respiro della partitura: quando Verdi, infatti, prescriveva aria fresca, lo faceva a ragion veduta, ed è sempre rischioso ignorarlo.
[Da "La Stampa" del 14 maggio 2003]
I due foscari
Cast & credits
Titolo
I due foscari |
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Sotto titolo
tragedia lirica in tre atti |
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Data rappresentazione
13/05/2003 |
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Città rappresentazione
Milano |
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Luogo rappresentazione
Teatro degli Arcimboldi |
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Libretto
Francesco Maria Piave |
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Regia
Cesare Lievi |
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Interpreti
Leo Nucci Ivan Inverardi Francisco Casanova Yasuharu Nakajima Dimitra Theodossiu Michaela Carosi |
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Produzione
Nuovo allestimento del Teatro alla Scala di Milano |
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Scenografia
Maurizio Balò |
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Costumi
Maurizio Balò |
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Luci
Luigi Saccomandi |
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Musiche
Giuseppe Verdi |
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Orchestra
Teatro alla Scala |
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Direzione d'orchestra
Riccardo Muti (Roberto Rizzi 27-30 maggio) |
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Coro
Teatro alla Scala |
|
Maestro del coro
Bruno Casoni |
Trama
Antefatto
Francesco Foscari fu designato Doge di Venezia il 15 Aprile 1425, in aperta rivalità con Pietro Loredano che divenne suo strenuo oppositore. Quest'ultimo morì, contemporaneamente al fratello Mario e si disse che i due fossero stati avvelenati; i sospetti caddero sui Foscari. Il figlio di Pietro, Jacopo Loredano, convinto della colpevolezza di Francesco, coltivò per anni il suo sogno di vendetta.
Gli eventi precipitarono per una serie di coincidenze a favore di Loredano e ai danni della famiglia Foscari:Jacopo, figlio di Francesco, sposo di Lucrezia Contarini, fu mandato al confino sotto l'accusa di aver accettato donativi da alcuni principi stranieri. Quindi, il 5 novembre 1450, il capo dei Consiglio dei Dieci, Ermolao Donato, fu assassinato e poiché il giorno precedente era stato visto a Venezia il servo di Jacopo, vennero sospettati nuovamente i Foscari.
Tradotto a Venezia, processato e torturato, Jacopo fu esiliato a Candia. Cinque anni dopo chiese l'intercessione del duca di Milano, Francesco Sforza, ma la sua lettera fu intercettata. Il giovane Foscari si trovò nuovamente accusato di complotto contro lo Stato. Qui ha inizio l'azione del libretto di Francesco Maria Piave.
Atto I
In una sala del palazzo ducale di Venezia sta per riunirsi il Consiglio dei Dieci. Entra in scena Jacopo, che attende il processo; nonostante la sorte avversa è felice di poter rivedere l'amata patria. Quindi il prigioniero viene scortato davanti ai senatori.
(Sala di Palazzo Foscari)
Lucrezia è convinta dell'innocenza del marito e pretende giustizia. Per questo vuole essere ascoltata dal doge che non può dimenticare di essere prima di tutto padre. Intanto i Dieci hanno deciso di risparmiare la vita a Jacopo, decretandone però l'esilio. Lucrezia dà sfogo a tutta la sua ira per l'iniqua sentenza.
(Stanze private del doge)
Francesco medita sul proprio destino. E' combattuto tra i sentimenti paterni e i doveri verso lo Stato. Giunge Lucrezia che inveisce contro i Dieci, ma il doge le ricorda che anche lei deve rispettare le leggi.
Atto II
(Prigioni di stato)
Jacopo è rinchiuso in un orrido carcere. E' in preda al delirio e vede il fantasma di Carmagnola, il condottiero giustiziato per tradimento; quando lo spettro avanza verso di lui, il giovane cade a terra svenuto. Entra nella cella Lucrezia che, vedendolo esanime a terra, crede che il marito sia stato ucciso. Ma Jacopo si sveglia, anche se è ancora in preda al delirio e riconosce la moglie solo quando lei lo abbraccia. Appresa la notizia della condanna, Jacopo maledice i suoi persecutori ma si abbandona ancora alla speranza. Sopraggiunge anche il doge per dare l'ultimo saluto al figlio. Quindi appare Loredano che comunica al prigioniero la sentenza.
(Sala del Consiglio)
I senatori discutono sulla sorte di Jacopo, quando entra il doge che si rimette alle loro decisioni. Il giovane Foscari, scortato nella sala, invoca l'intercessione del padre, ma inutilmente. Ma ecco il colpo di scena: irrompe Lucrezia, portando con se i due figli e si getta ai piedi del doge. Ma il solo Barbarigo si muove a commozione. Si decide di dare subito corso alla sentenza: a Jacopo viene negata anche 1' ultima concessione da lui implorata, di partire per l'esilio con la famiglia.
Atto III
(Antica piazzetta di San Marco)
Si tiene una regata, il popolo è in festa e canta una barcarola. Le trombe annunciano l'arrivo del capo della polizia e del magistrato: Jacopo, circondato dalle guardie e seguito dalla moglie, sta per lasciare Venezia. L'ultimo commiato tra i due muove tutti a commozione, meno l'implacabile Loredano che interviene per separarli,
(Stanze private del doge)
Il vecchio Foscari è prostrato per la partenza del figlio, per il quale non ha potuto far nulla. Improvvisamente Barbarigo gli porge una lettera nella quale Erizzo, in punto di morte, ha confessato di essere il responsabile della morte di Donato, scagionando quindi Jacopo. Ma il doge non ha nemmeno il tempo di rendersi conto di quanto sta accadendo: entra Lucrezia e porta la notizia della morte di Jacopo, non appena imbarcato per Candia. Foscari si abbandona su una sedia, come impietrito.
Un servo annuncia che una delegazione del Consiglio dei Dieci vuole essere ascoltata. Loredano è il loro portavoce: chiedono che il Foscari abdichi. Il doge è indignato e dà sfogo a tutta la sua orgogliosa ira, quindi fa introdurre Luerezia. Non vorrebbe cedere ma ormai si rende conto che tutti i patrizi del Consiglio gli sono avversi. Suona la campana di San Marco: il successore di Foscari, il doge Malipiero, è già stato elevato al trono. Francesco non regge a tanto affronto: muore tra le braccia della nuora invocando ancora una volta l'amato figlio.
Francesco Foscari fu designato Doge di Venezia il 15 Aprile 1425, in aperta rivalità con Pietro Loredano che divenne suo strenuo oppositore. Quest'ultimo morì, contemporaneamente al fratello Mario e si disse che i due fossero stati avvelenati; i sospetti caddero sui Foscari. Il figlio di Pietro, Jacopo Loredano, convinto della colpevolezza di Francesco, coltivò per anni il suo sogno di vendetta.
Gli eventi precipitarono per una serie di coincidenze a favore di Loredano e ai danni della famiglia Foscari:Jacopo, figlio di Francesco, sposo di Lucrezia Contarini, fu mandato al confino sotto l'accusa di aver accettato donativi da alcuni principi stranieri. Quindi, il 5 novembre 1450, il capo dei Consiglio dei Dieci, Ermolao Donato, fu assassinato e poiché il giorno precedente era stato visto a Venezia il servo di Jacopo, vennero sospettati nuovamente i Foscari.
Tradotto a Venezia, processato e torturato, Jacopo fu esiliato a Candia. Cinque anni dopo chiese l'intercessione del duca di Milano, Francesco Sforza, ma la sua lettera fu intercettata. Il giovane Foscari si trovò nuovamente accusato di complotto contro lo Stato. Qui ha inizio l'azione del libretto di Francesco Maria Piave.
Atto I
In una sala del palazzo ducale di Venezia sta per riunirsi il Consiglio dei Dieci. Entra in scena Jacopo, che attende il processo; nonostante la sorte avversa è felice di poter rivedere l'amata patria. Quindi il prigioniero viene scortato davanti ai senatori.
(Sala di Palazzo Foscari)
Lucrezia è convinta dell'innocenza del marito e pretende giustizia. Per questo vuole essere ascoltata dal doge che non può dimenticare di essere prima di tutto padre. Intanto i Dieci hanno deciso di risparmiare la vita a Jacopo, decretandone però l'esilio. Lucrezia dà sfogo a tutta la sua ira per l'iniqua sentenza.
(Stanze private del doge)
Francesco medita sul proprio destino. E' combattuto tra i sentimenti paterni e i doveri verso lo Stato. Giunge Lucrezia che inveisce contro i Dieci, ma il doge le ricorda che anche lei deve rispettare le leggi.
Atto II
(Prigioni di stato)
Jacopo è rinchiuso in un orrido carcere. E' in preda al delirio e vede il fantasma di Carmagnola, il condottiero giustiziato per tradimento; quando lo spettro avanza verso di lui, il giovane cade a terra svenuto. Entra nella cella Lucrezia che, vedendolo esanime a terra, crede che il marito sia stato ucciso. Ma Jacopo si sveglia, anche se è ancora in preda al delirio e riconosce la moglie solo quando lei lo abbraccia. Appresa la notizia della condanna, Jacopo maledice i suoi persecutori ma si abbandona ancora alla speranza. Sopraggiunge anche il doge per dare l'ultimo saluto al figlio. Quindi appare Loredano che comunica al prigioniero la sentenza.
(Sala del Consiglio)
I senatori discutono sulla sorte di Jacopo, quando entra il doge che si rimette alle loro decisioni. Il giovane Foscari, scortato nella sala, invoca l'intercessione del padre, ma inutilmente. Ma ecco il colpo di scena: irrompe Lucrezia, portando con se i due figli e si getta ai piedi del doge. Ma il solo Barbarigo si muove a commozione. Si decide di dare subito corso alla sentenza: a Jacopo viene negata anche 1' ultima concessione da lui implorata, di partire per l'esilio con la famiglia.
Atto III
(Antica piazzetta di San Marco)
Si tiene una regata, il popolo è in festa e canta una barcarola. Le trombe annunciano l'arrivo del capo della polizia e del magistrato: Jacopo, circondato dalle guardie e seguito dalla moglie, sta per lasciare Venezia. L'ultimo commiato tra i due muove tutti a commozione, meno l'implacabile Loredano che interviene per separarli,
(Stanze private del doge)
Il vecchio Foscari è prostrato per la partenza del figlio, per il quale non ha potuto far nulla. Improvvisamente Barbarigo gli porge una lettera nella quale Erizzo, in punto di morte, ha confessato di essere il responsabile della morte di Donato, scagionando quindi Jacopo. Ma il doge non ha nemmeno il tempo di rendersi conto di quanto sta accadendo: entra Lucrezia e porta la notizia della morte di Jacopo, non appena imbarcato per Candia. Foscari si abbandona su una sedia, come impietrito.
Un servo annuncia che una delegazione del Consiglio dei Dieci vuole essere ascoltata. Loredano è il loro portavoce: chiedono che il Foscari abdichi. Il doge è indignato e dà sfogo a tutta la sua orgogliosa ira, quindi fa introdurre Luerezia. Non vorrebbe cedere ma ormai si rende conto che tutti i patrizi del Consiglio gli sono avversi. Suona la campana di San Marco: il successore di Foscari, il doge Malipiero, è già stato elevato al trono. Francesco non regge a tanto affronto: muore tra le braccia della nuora invocando ancora una volta l'amato figlio.