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L'eterno ritorno di Mrs Dolloway

di Siro Ferrone
  Nicole Kidman in The Hours
Data di pubblicazione su web 13/02/2003  
Tre grandi attrici o comunque grandi star (Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman), un best seller vincitore del Premio Pulitzer (The Hours di Michael Cunningham), un regista di talento (il quarantaduenne Stephen Daldry, al suo secondo film importante dopo il fortunato Billy Elliot e dopo una solida formazione teatrale), un produttore specializzato in realizzazioni di brillante intrattenimento (Scott Rudin): questo e altre cose sono bastate per due potenze mondiali della distribuzione cinematografica (Miramax e Paramount) per imporsi con efficacia all'attenzione del Festival di Berlino. Ma si tratta di un'efficacia senz'anima.


Virginia Woolf (Nicole Kidman)
Virginia Woolf (Nicole Kidman)

Ci sono tre storie nel film. La prima inizia nel 1923 e arriva a raccontare le ultime ore della vita di Virginia Woolf fino al suicidio (il trucco imbruttisce ma non toglie grazia alle posture di una sempre seducente Kidman). La seconda è ambientata nel 1953 e osserva la giornata di una casalinga americana, Laura Brown, interpretata dall'eccellente Moore, spinta al suicidio (rientrato) e poi all'abbandono della famiglia dalla suggestione della lettura di Mrs Dolloway della Woolf. La terza storia è nel 2001 e fissa la giornata di una donna di successo (Meryl Streep), più o meno felicemente lesbica e madre di una figlia convivente, che assiste pietosamente e accanitamente, fino alle ultime ore del suicidio improvviso, lo scrittore di successo, malato di Aids, da lei amato per pochi giorni in un lontano passato. Lui la chiamava ironicamente "Mrs Dolloway", ed era nientedimeno che il figlio della casalinga di cui sopra che - lo apprendiamo dallo scioglimento finale dell'intreccio - aveva già lasciato alle sue spalle altri morti, una figlia e il marito. 

 
Ma tutto il film è costruito come un giallo. Il furbo regista distribuisce segnali di richiamo tra una storia e l'altra. Somiglianze nei visi, trucchi sorprendenti nel maquillage, gesti che si ripetono a distanza di decenni, coincidenze sceniche, servono a fare nascere "sospetti" nello spettatore, a stabilire connessioni, a trasformare un prima e un dopo in una causa e in un effetto. Tutto così ben recitato e così ben filmato da sembrare verosimile anche quando non lo è.

Sicuramente si tratta di una commedia ben orchestrata, un tempo si sarebbe detto una pièce bien faite. Ma un tempo qualcuno si sarebbe anche chiesto se in quell'oggetto ci fosse un'anima. Volendo ostinarci a rispondere, dobbiamo dire che qui ne restano pochi e disparati frammenti.


Meryl Streep
Meryl Streep
 

Virginia Woolf è solo un abile pretesto per fabbricare un'icona memorabile. La fragilità inintelligente e disperata con cui Julianne Moore tratteggia la ribellione ottusa e decisa della sua neofemminista degli anni Cinquanta è uno spiraglio di luce. La volitiva e in fin dei conti soddisfatta vitalità con cui Meryl Streep seppellisce il suo passato e il suo uomo, pur nei turbamenti di una indimenticata materna femminilità, è il tratto autenticamente tragico del film. Gli uomini sono spazzati via, evacuati nel giro di quasi ottant'anni, perdenti fin dall'inizio anche se resistenti. Al suicidio di Virginia fa da riscontro quello finale dell'amante-scrittore-malato dell'ultima Dolloway newyorkese. Tutti i personaggi maschili sono in attesa di morire, giacciono nello standby della vita.

Questa malinconia tragica (non solo per il partito dei maschi) arriva però a colpire la sensibilità dello spettatore malgrado il gioco seducente degli specchi, la coltre colorata della telenovela che il film si ostina a interporre tra noi e l'anima di quell'idea.

Sarà l'humour inglese che vuole sempre distanziare la tragedia o non sarà piuttosto il bisogno di intrattenere - in maniera colta e aggiornata (Aids, liberazione sessuale, letteratura di gender, e così via) il più a lungo possibile nella sala a pagamento? Per intrattenere bisogna essere dei buoni illusionisti. Al maschio e alla femmina forse non è concesso di più. Vedere per dimenticare come insegna Stanley Kubrick.


The Hours
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