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New York dopo la caduta

di Siro Ferrone
  Edward Norton in ''La venticinquesima ora''
Data di pubblicazione su web 14/02/2003  
Monty Brogan (l'ottimo Edward Norton) è stato condannato per detenzione di droga e deve scontare sette anni di prigione, in uno di quegli inferni carcerari Usa che non riabilitano ma distruggono, dentro e fuori, l' essere umano che ha la disgrazia di finirci dentro (fonte: Spike Lee). Fino a quel momento Monty aveva vissuto con elegante noncuranza il suo mestiere di dealer (o portatore di morte, che dir si voglia) e aveva anche trovato il modo, da bravo figliolo, di passare qualche soldo al padre per aiutarlo nel suo lavoro. Un giovane di buon cuore, insomma, che aveva anche trovato il tempo di 'adottare' un povero cane randagio, di mantenere un tenore di vita elegante e di intrattenere una tranquilla storia d'amore con una bella fidanzata. Conciliando tutto questo con 'corrette' relazioni con la mafia russa di New York.


La venticinquesima ora
La venticinquesima ora


D'improvviso il crollo, Monty deve salutare tutti e partire per l'inferno. Il film racconta il congedo ora depresso ora isterico dal suo mondo: il padre, la fidanzata, il cane, i due amici Jacob (Philip Seymour Hoffman) e Frank (Barry Pepper), e soprattutto la sua città, New York.

Il racconto del lungo addio si svolge sullo sfondo delle macerie del cosiddetto Ground Zero: in particolare, un lungo dialogo tra Frank e Jacob, su sesso, denaro e amicizia - uno sproloquio ridicolo e demente - è girato dall'alto di un grattacielo che domina il sepolcro imbiancato delle Due Torri. Lo stesso colore acido è adoperato da Spike Lee per le scene della discoteca in cui folle nevrotiche di mani e di corpi sudati si agitano in maniera insensata.


La venticinquesima ora
La venticinquesima ora

Sono tutti ubriachi e depressi senza futuro questi piccoli uomini e queste piccole donne di New York. Jacob, malinconico e sfigato professore, è sessualmente frustrato ma non si lascia tentare dall'allieva minorenne tanto volgare quanto aggressiva. Frank è più cinico, violento suo malgrado, realista come può esserlo un agente di borsa senza molto talento. Contro di loro, contro se stesso e, soprattutto, contro New York il protagonista dalle buone maniere finisce per scagliare la sua rabbia in un rap pronunciato davanti allo specchio di un cesso, solo con la sua coscienza e la sua impotenza: il monologo è cadenzato da un ritornello di fuck you che si abbatte sulla testa dei concittadini neri, gialli, portoricani, musulmani, italiani, ispanici, asiatici, della grande città non più grande.

Alla fine, accompagnato dal padre, su una macchina che inalbera (con orgoglio o con disperazione?) la bandiera a stelle e strisce, Monty va in prigione. Ma mentre va sogna il solito sogno americano: la fuga all'ovest, lontano da Manhattan, la riscoperta della frontiera, le grandi distanze, la costruzione di un futuro. È l'ultimo monologo prima della definitiva caduta. Il sogno americano è ormai un ridicolo grottesco.

Spike Lee ha mescolato ovvietà a intuito in questo film dedicato alla gente comune degli Stati Uniti. Segue la convenzione del film metropolitano, tra malavita e locali notturni, così come si adegua alla convenzione della commedia psicologica fatta di lunghi e divertenti dialoghi nel mondo della middle class. Nell'insieme nulla di nuovo. Eppure le tinte generali della fotografia e i toni della recitazione, danno una forza inaspettata all'esecuzione di una sceneggiatura, tutto sommato banale. Da uomo di talento, grazie al buon livello dei suoi attori e al solito uso svelto e elastico della macchina da presa, ha saputo stare dentro alle cose e trasmettere in una disperata malinconia il segnale doloroso che un mondo è finito e non ricomincerà mai più.


La venticinquesima ora
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