"Kusturica è politicamente inaffidabile, ma è un poeta: un poeta che, come John Ford, fa sempre lo stesso film e ha trovato nelle colline jugoslave la sua Monument Valley. Perché dovremmo chiedergli di cambiare? Chiedereste al cielo di cambiare colore?". Così ha scritto provocatoriamente Alberto Crespi su LUnità del 15 maggio 2004, in occasione della presentazione a Cannes dellultimo film del regista serbo-bosniaco Emir Kusturica, La vita è un miracolo, da qualche giorno uscito anche nelle sale italiane. In effetti Crespi non ha tutti i torti, nel senso che questultima fatica di quello che è uno dei registi più amati ed odiati della sua generazione, sembra un prodotto che sa di dejà vu, soprattutto in riferimento ai due film che lo precedono: Underground (1995, Palma doro) e Gatto nero gatto bianco (1998). Insomma, una variazione sul tema di quello che può essere considerato un unico, lunghissimo film, eppure nonostante la riproposizione di temi, situazioni, gags e personaggi così legati al suo immaginario surreale e tragicomico, ne La vita è un miracolo Kusturica conserva una vitalità ed una freschezza che riescono a rendere questi stilemi narrativi ancora interessanti ed imprevedibili.
La storia è incentrata sulla figura di Luka (Slavko Stimac), un ingegnere serbo che vive con moglie e figlio in una zona della Bosnia lontana miglia e miglia dalla città più vicina. Il sogno di quello che è a tutti gli effetti un inguaribile ottimista è portare lassù la ferrovia, per creare turismo, commercio e dunque ricchezza: tutto questo, mentre la Croazia dichiara l'indipendenza dallormai ex-Yugoslavia, il mosaico costruito da Tito che va in briciole. Il figlio di Luka, Milos (Vuc Kostic), sogna di giocare in serie A (nel Partizan di Belgrado) ma viene chiamato sotto le armi; la moglie Jadranka (Vesna Trivalic) è un'ex cantante lirica pazza che ben presto fugge, dopo una festa debordante, con uno stralunato musicista ungherese. Allo scoppio della guerra tra serbo-bosniaci e musulmani, con la casa costantemente sotto il fuoco dellartiglieria, Luka si innamora di una sua prigioniera, la bella Sabaha (Natasa Solak), con la quale progetta di fuggire niente poco di meno che in Australia.
Ma se la storia ruota principalmente attorno a questi quattro personaggi, nel film ciò che fa emergere lironia dissacrante e lo sberleffo tragico è proprio quella coralità, tipica di Kusturica, che è un tratto fondamentale dellintera poetica del film. La vita è un miracolo è il palcoscenico privilegiato di innumerevoli personaggi sgangherati: politici guardoni, eccitate signore sovrappeso in gingheri, malinconici suonatori, calciatori falliti, ballerine licenziose, nani scurrili, postini sognatori, front-men ubriaconi, soldati fannulloni, puttane ecc., tutti attori di una surreale sceneggiata giocata sempre sul filo della provocazione e delleccessività; a condire il tutto la solita cornice fatta di feste ed inaugurazioni che finiscono allalba, in un concentrato di musiche popolari travolgenti (che fanno il verso allex-compagno di strada Goran Bregovich) ed ossessive, litri di alcol, cibarie, rutti e balli sfrenati. Sembrano quasi tutti in preda allistintualità animale queste strampalate figure fiabesche, e in effetti il ritratto di questa umanità, che sembra vivere sempre sul sottile filo che separa la felicità dalla disperazione, viene alternato alla presenza (molto marcata) degli animali, parte integrante ed attiva di questa ridicola e triste comunità di montagna: cani, gatti, oche, pecore, cavalli, mucche, galline, orsi, fino ad arrivare ad unasina, triste e piagnucolante perché malata damore, che si rifiuta per questo di spostarsi dai binari della ferrovia.
Un mondo intero, quello kusturiciano, raccolto nelle due ore e mezza di film, che vuole essere un ritratto dolce ed amaro di un popolo e di unepoca, che senza fare della sociologia, si lascia trasportare dai ritmi fiabeschi e leggeri della tragicommedia, tipici di quel "realismo magico" di cui Kusturica è il maggiore rappresentante nel cinema (almeno quanto Garçia Marquez lo è nella letteratura); decisamente affascinante è a questo proposito la scena in cui il letto in cui sono distesi Luka e Sabaha si alza in volo, percorrendo tra le nuvole e il cielo il paesaggio dolce e dannato delle colline bosniache. Certi echi shakespeariani si fanno sentire (la storia damore tra i due amanti di opposte fazioni è una chiara rivisitazione di Romeo e Giulietta, come lalternanza costante tra il tono comico-farsesco e quello tragico), alternati a certi toni appartenenti alla commedia caucasica degli ultimi anni (Luna papa, Vodka lemon), in un pastiche onirico e scanzonato che non smette mai però di trascurare il versante oscuro e sanguinario dello scenario di guerra.
Semmai è proprio nel discorso politico che il film di Kusturica sembra mostrare delle crepe. Troppo indulgente nei confronti dellesercito serbo di Milosevic, troppo superficiale sul tema della falsa informazione nei tempi di guerra, troppo sarcastico nei confronti delle truppe Onu (già prese di mira nel bellissimo No mans land di Danis Tanovic nel 2001), il regista serbo paga la volontà (seppur sincera) di voler fare anche un discorso storico, segnalando sin dallinizio che la guerra è proprio quella scoppiata nel 1992. Caratterizzando in maniera così precisa il tempo della narrazione, egli fa scivolare il film nelle pericolose maglie del quadro storico, nel quale, evidentemente, i toni comici e surreali non sempre si dimostrano allaltezza della tragicità di quella guerra sanguinaria e terribile. E come se cioè si aprisse una frattura insanabile tra la ricerca storica e le forme della narrazione, imprigionando spesso il film in una sorta di zona di mezzo che gli impedisce di "volare alto", portando a buoni esiti loperazione di coniugare la commedia alla tragedia. Questo handicap, che La vita è un miracolo si porta dietro, si sarebbe potuto evitare se il discorso storico fosse stato a-temporale, privo di riferimenti certi, e ne sono un esempio sia la scena molto riuscita della partita di calcio che alla fine si trasforma in unenorme rissa tra tifoserie e fazioni, sia il continuo simbolismo che alterna le sanguinose lotte tra gli animali agli scontri tra gli uomini.
Se Kusturica avesse seguito questa strada forse il film avrebbe avuto (paradossalmente) un maggiore respiro: coniugare il proprio indiscutibile talento surreale e farsesco alla tragedia della guerra nella ex-Yugoslavia non sempre dà i risultati artistici sperati. Dal canto mio, convinto dellarbitrarietà di questo consiglio, ricordo però che alla fine un film di Kusturica, più o meno riuscito, è sempre cosi: prendere o lasciare.
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