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Le colpe non si scontano in paradiso

di Marco Luceri
  cuore sacro
Data di pubblicazione su web 04/03/2005  

Dopo il grande successo de La finestra di fronte (2003), il regista italo-turco Ferzan Ozpetek torna sugli schermi con il nuovo film Cuore sacro, scritto insieme al fidato sceneggiatore e collaboratore Gianni Romoli. Dedicato agli "sgusciati", il film tocca una pluralità di temi molto cari alla precedente produzione del regista: il recupero della memoria, il confronto con l’alterità del mondo, sia essa espressa nella sessualità, o più in generale nelle differenze che la società impone, la tensione verso la spiritualità. Ozpetek, la cui abilità registica è andata crescendo e affinandosi negli anni, propone in Cuore sacro un percorso di possibile salvezza, attraverso la ricerca di un riconoscimento del proprio autentico ruolo nel mondo; tale cammino passa nel film attraverso gli snodi fondamentali del peccato, della colpa, dell’espiazione, che danno al film un forte senso di misticismo, il cui spessore non sempre però riesce a restare all’altezza delle intenzioni.


Lo stesso Ozpetek ha dichiarato, a proposito della dedica che apre il film, che gli "sgusciati" sono tutti coloro che pur essendo morti, in realtà non sono affatto lontani perché è come se fossero sgusciati (appunto) nella stanza accanto, e il nostro dovere dovrebbe essere quello di riuscire a ricordarli tra le risate, nelle chiacchiere di tutti i giorni. Il film parte dunque da questo forte nucleo tematico: il recupero di una memoria che non deve essere affatto cancellata, perché è forse in essa che si nasconde il mistero più profondo della realtà umana. Protagonista di questo viaggio all’indietro è Irene (Barbara Bobulova), bella e gelida donna d’affari che decide un giorno di ristrutturare l’antico palazzo di famiglia situato al centro di Roma per farne un complesso di mini-appartamenti.

La ricca manager non riesce neanche lontanamente ad immaginare che dietro la porta chiusa di quel palazzo si nasconde non solo gran parte del suo passato, ma soprattutto le tracce di quello che sarà poi il suo futuro. Percorrendo le stanze vuote ed oscure di questa dimora signorile Irene entra nella stanza (chiusa con il chiavistello da molti anni per volere del padre) in cui per molti anni sua madre (un soprano drammatico) ha atteso la morte, soffocata dalle sue ossessioni e dalle tantissime parole incomprensibili scavate sulle pareti. In realtà per Irene sarà come aprire una porta verso un mondo di dolore, di sofferenza e di povertà che la farà scendere dal piedistallo della sua ricchezza, per condurla tra i diseredati, tra altri sgusciati, quelli cioè che hanno perso tutto.


Fuori dal palazzo Irene conosce una ragazzina, Benny (Camille Dugay Comencini), astuta e generosa tredicenne dedita a piccoli furti per racimolare qualche soldo, ma attiva nel volontariato della parrocchia di padre Carras (Massimo Poggio). Tra le due nasce un’amicizia che diventa lentamente un vero e proprio rapporto di reciproca scoperta. Irene resta colpita dalla semplicità e dall’innocenza di Benny e probabilmente rivede in lei non solo se stessa per come avrebbe voluto essere durante l’infanzia, ma l’immagine della madre stessa, della sua dolcezza sconosciuta, del suo misterioso mondo di donna a cui fu negata la vita. La disgrazia che colpisce Benny segna la vera cesura di Cuore sacro e il senso di colpa che travolge Irene la conduce verso una sorta di delirio altruistico: si allontana dall’azienda, trasforma il palazzo di famiglia in una di casa d’accoglienza per decine e decine di diseredati, arriva addirittura a spogliarsi dei propri vestiti per farne dono agli altri.


La figura di questo complesso personaggio e la storia di cui è protagonista rimandano alla donna borghese interpretata da Ingrid Bergman in Europa 51 (1951) di Rossellini, a cui Ozpetek cerca di rifarsi (il nome delle due donne è lo stesso, Irene) in maniera manifesta. Tuttavia se nel film di Rossellini, Irene patisce in prima persona nel suo fervore missionario l’alienazione del lavoro in fabbrica, preannuncio di una follia le cui colpe sono rintracciabili nel moralismo ipocrita della società, la manager di Ozpetek abbraccia il misticismo religioso attraverso un percorso davvero troppo "personale" per poterlo ritenere credibile fino in fondo. Ciò che sembra non funzionare in Cuore sacro è purtroppo la costante metafora cristologica (sottolineata forzatamente da alcune fin troppo "pittoriche" posture sceniche degli attori) che il regista cerca di addossare al suo personaggio. Alcune sbavature drammaturgiche strutturali non permettono alla protagonista di vivere la sua ricerca in maniera autenticamente spirituale; il senso di espiazione che la sovrasta in maniera sempre più totalizzante non sembra altro che un dare e ricevere beni materiali, seguendo un certo schematismo che si trascina in maniera stancante fino alla fine. E’ possibile, ci si chiede, che per riuscire a conquistare il senso di avvicinamento all’alterità del mondo, Irene debba per forza passare attraverso la perdita materiale dei beni? Questa morale pauperistica era necessaria per arrivare a caratterizzare il personaggio per quello che alla fine è? Non credo affatto.


A riprova di ciò sta proprio tutta la prima parte del film, che funziona molto meglio della seconda. Dominata da personaggi femminili ben riusciti come le due zie di Irene, la splendida alcolista Maria Clara (Erica Blanc) e la spregiudicata Eleonora (Lisa Gastoni), è proprio con il tema della ricerca della memoria che Ozpetek dimostra di sentirsi molto più a suo agio. La sua maestria registica tende infatti a trasformare gli ambienti in una sorta di grande e misteriosa cassa di risonanza delle tensioni emotive dei personaggi che calcano la scena. Grazie allo strepitoso lavoro dello scenografo Andrea Grisanti e del direttore della fotografia Gianfilippo Corticelli gli interni vivono della dimensione antica ed inappellabile della memoria; le scene in cui Irene si aggira sola per le oscure stanze del palazzo di famiglia sono tra le più belle dell’intera filmografia del regista: è qui che avviene il vero riscatto della giovane donna, in quel toccare prima con i sensi e poi con il cuore le pareti nodose e scrostate del passato, restituendo a se stessa le vecchie ed ingiallite immagini rubate della propria storia personale. La costruzione di questo tipo di ambiente si alterna poi ad un uso sapientissimo ed insistito dei primi piani, che riescono a creare la giusta sintonia tra la macchina da presa e gli attori stessi: appaiono, scompaiono, riappaiono questi volti, in una partitura visiva che ci restituisce in pieno tensioni, angosce, speranze e misticismo in maniera molto più diretta e riuscita di quanto non facciano gli improbabili comportamenti "francescani" di Irene.

Resta, alla fine di Cuore sacro, un senso di incompiutezza, uno strano disorientamento per un film che avrebbe potuto avere ben altri esiti, se non fosse stato portato troppo moralisticamente "in alto" da Ozpetek e Romoli. Lo scarto tra la partitura visiva e la tensione morale è troppo forte per poter ammettere Cuore Sacro tra le migliori prove del regista italo-turco. Resta, naturalmente, l’auspicio che per il prossimo film Ozpetek, smaltita la sbornia di pauperismo francescano, si senta meno messia e più regista, e torni cioè, a modo suo, a raccontarci il mondo da quella che resta la sua visuale preferita, quella più squisitamente vicina ad un’intima sensibilità della vita e del mondo.






Cuore sacro
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Ferzan Ozpetek
Ferzan Ozpetek




 
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