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Rosa, rosae

di Roberto Fedi
  Alessandro Petacchi indossa la maglia rosa
Data di pubblicazione su web 13/05/2003  
In una famosa novella del Boccaccio (Decameron, I, 2) si narra di Abraam, di religione ebraica, che è spinto da un suo amico cristiano a convertirsi; e prima di farlo va a Roma per rendersi conto di persona. Al ritorno racconta che ne ha viste di tutti i colori: corruzione del clero, porcherie, malaffare. E perciò, aggiunge, ha deciso di convertirsi. Stupore dell'interlocutore. Il fatto è - replica l'altro - che se nonostante tutto voi esistete come chiesa da centinaia di anni, vuol dire che questa è davvero la vera religione, e il vostro è il vero Dio, ché altrimenti sareste scomparsi da chissà quanto.
 
Che c'entra questo con il Giro d'Italia, che riparte dal 10 maggio per l'edizione numero 86? C'entra. Perché, scusandoci per il paragone e facendo un po' di ironia, se il ciclismo (anzi, il Giro) resiste a tutto quello che ha subito in questi anni, beh vuol dire che è proprio qualcosa che va al di là di un po' di biciclette e maglie rosa. Non ci riferiamo solo a tutto quello che il lettore conosce benissimo: doping, processi, sequestri, squalifiche. Vogliamo parlare proprio del modo in cui il Giro è servito dagli strumenti di informazione.

Qui sta il busillis. Da quando Adriano De Zan non c'è più, abbiamo cominciato a rimpiangerlo. Succede sempre così, si dirà: chi segue è quasi sempre peggio di chi precede, secondo un'idea del progresso un po' alla rovescia. Da qualche anno commentano le tappe in due, quasi a farsi coraggio a vicenda: Auro Bulbarelli e Davide Cassani (con qualche intervento quest'anno di Silvio Martinello). Il secondo è stato un discreto ciclista, come del resto Martinello, e la sua competenza è fuor di dubbio. Il primo ha un passato oscuro, dal quale è emerso prima come inviato al seguito, e poi risalendo la china come commentatore principe.

Seguendo le tappe del Giro qualsiasi persona dotata di occhi e di orecchi capisce al volo che in tutta la faccenda c'è qualcosa che non va. Le immagini sono splendide (per questo chiunque ha memoria storica dovrà ringraziare il 'passaggio', ahimè breve, del Giro a Mediaset, che ruppe la monotonia delle solite riprese senza genio e obbligò anche la Rai, in seguito, a fare altrettanto); la corsa è quasi sempre emozionante, anche per chi non conosce il ciclismo (da qui la fondamentale differenza con il calcio o altri spettacoli agonistici: lì bisogna capirci qualcosa, qui basta guardarlo); lo snodarsi delle tappe in un unico 'romanzo' d'avventura sportiva è entusiasmante per chiunque ami la nobile arte del racconto; la fatica dei ciclisti è così evidente, la loro serietà è di solito così palese, la loro discrezione così eccezionale se raffrontata all'esibizionismo - petulante, insopportabile, indecoroso - dei loro colleghi calciatori, da rendere il Giro un evento che va al di là, appunto, del puro intrattenimento spettacolare.

Eppure. Eppure c'è qualcosa che non funziona. E questo qualcosa è appunto il modo in cui il Giro è 'servito' dalla parte parlata e giornalistica della Rai. Raramente accade, insomma, di vedere una tale discrasia fra le immagini (bellissime e spesso mozzafiato, sia dall'elicottero che dalla strada) e tra il racconto televisivo, e il relativo commento. Che è palesemente inadeguato: monotono, banalizzante, incapace di cogliere il senso dell'evento 'mentre' si sta svolgendo. Bulbarelli, il commentatore principale, è noioso e privo di genio, e sa solo eseguire compitini scolastici mentre davanti a lui (e a noi) si snoda il romanzo avvincente di un gruppo di uomini che percorrono l'Italia in bicicletta, fra milioni di persone che applaudono, urlano, chiamano, invocano; Cassani fa il suo, ma non riesce a elevarsi neanche un po' dalla routine di una spiegazione tecnica che in fondo serve a poco. Qualche volta, specialmente nella concitazione dell'arrivo, si sovrappongono in modo fastidioso con il commentatore che segue in moto. Nessuno, neanche per sbaglio, arriva nemmeno a sfiorare un minimo di emozione, non si dice di epos: che è poi l'unica ragione per cui il Giro ancora resiste, nonostante tutto.

Lo seguiremo ancora. Ma, intanto, già notiamo che ci può essere di peggio. Ed è il contorno della tappa: i commenti, i dibattiti, le interviste. Lì siamo veramente all'indecenza. Come si possa affiancare, ad un evento così importante sul piano spettacolare, i dilettanteschi siparietti che la Rai ha allestito, è un vero mistero. Signorine senza arte né parte che intervistano i corridori facendo domande del tipo "cosa ha provato", che parlano di Giro "pazzesco", che - intervistando l'imbarazzato di turno, in questo caso un comandante dei carabinieri - dichiarano coram populo che le motociclette "anticiperanno e posticiperanno" i ciclisti. E poi collegamenti che saltano, inquietanti fuori onda (invece ancora 'in onda'), banalità da morir da ridere di tipo geografico-culturale ("a Matera ci sono dei sassi bellissimi", ha detto una di queste domenica 11 maggio, Rai3, alle ore 14 circa). Per non parlare del neobarbuto Galeazzi, su cui ci riserviamo di ritornare.

Aveva ragione Abraam. Ci dev'essere una ragione. O forse un Dio. Lassù, qualcuno deve amarli parecchio, ma proprio da innamorato cotto.

86° giro d'Italia

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