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Cantates

di Florence Scaramiglia
  Cantates
Data di pubblicazione su web 30/09/2002  
Un tendone bianco, rettangolare, allungato sul prato dov'era solito passeggiare Voltaire. Il Théātre du Radeau ha bisogno di un palco dalle dimensioni precise, dotato di una grande profondità. File di panchine di legno per 200 spettatori sono disposte di fronte al palco. All'alzarsi del sipario, sorprendono appunto la profondità di campo e la prospettiva frontale. Al centro, sopra una lavagna cieca, un tubo di neon bianco, crudele, accecante, unica illuminazione apparente. Lo spazio scenico è delimitato da altre lavagne o panelli, grigi, su rotelle, disposti di sbieco sui due lati. Larghi tavoli di formica giallastra e sedie dello stesso materiale dapprima paiono abbandonati dagli addetti alle pulizie, poi, invece, capiamo che sono stati collocati con cura e con attenzione.

I costumi sembrano ritrovati in un baule - nascosto dietro la tenda da qualche fata fantasiosa - e indossati a casaccio; tuttavia sono stranamente suggestivi e atemporali. Un personaggio cammina all'indietro su un tavolo, miracolosamente senza cadere, misurando i centimetri. Una donna in mutande bianche si sta vestendo lí in fondo, e non si sa dove abbia preso gli elementi disparati di quel costume che però si integra con la geometria del palcoscenico, fatta di linee rette, rettangoli e triangoli, e variabile per tutta la durata dello spettacolo. Pannelli (o schermi) trasportati dagli stessi attori raccolgono ombre impreviste e insospettate, ora un'anamorfosi, ora una croce. Un gesto sorpreso, sospeso, un'intonazione, una scansione, ritmi che si precisano, si precipitano, si rompono. Riusciamo appena ad afferrare lingue diverse di secoli diversi.

Anime erranti nell'inferno, in cielo, sulla terra, anime che si cercano, si riconoscono. Tutto appare di sfuggita, per caso e non per caso: maschere di gesso che rispondono a visi senza trucco, creature inventate da qualche demiurgo distratto; appaiono un angelo, un capitano, una guerriera con la corazza, un re con la spada, una sacerdotessa o una profetessa, un dio greco, un demonio, ma niente ha un senso certo. Ci troviamo come nella caverna di Platone. Una donna con cappotto militare, in piedi su un tavolo, tiene fra le braccia un'altra donna, con lo stesso cappotto, la tiene sospesa nel vuoto e, a poco a poco, cede, si piega, si china, vinta dal peso dell'altra. Ma chi sono? Che cosa si dicono? Un personaggio da commedia dell'arte, mantello scuro, bicorno di carta, sta seduto volgendo le spalle a un altro dal vestito d'oro, dalle parole taglienti. Inaspettatamente si mette a parlare dopo un lungo mutismo.

I testi non vengono interpretati, ma esposti, entità misteriose spesso coperte dalla musica. E' un mondo d'assenze e di presenze assolute, in cui tutto cambia impercettibilmente ad ogni respiro, in una dimensione atemporale che dura un'ora e mezzo. Un mondo in cui tutto sembra teso a rifiutare un senso alle apparizioni prive di intreccio, senza storia, senza personaggi veri e propri, oggetti senza tempo. Una civiltà - la nostra - fatta di luci (il neon crudo dell'inizio, le lampadine da giostra o da albero di natale, il finestrone immateriale del fondale, con il suo chiarore intenso, rassicurante, oltremondano) e di parole impercettibili. Una sorta di poema teatrale in cui tutti i testi (tra gli altri, Kierkegaard, Shakespeare, il XXIX canto del Purgatorio di Dante), accompagnati e coperti dalla musica (tra cui Verdi, Cage, Eisler), paiono venire da troppo lontano, come se un velo sonoro li ottundesse. Sembrerebbe che Tanguy abbia inteso presentarci la metafora del momento che stiamo vivendo: un presente in cui i messaggi non arrivano più interi, ma solo scomposti in brandelli, in frasi sconnesse, in parole appena percepite.


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