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Hiro Hito: un dio in terra

di Sara Mamone
  Il regista Aleksandr Sokurov
Data di pubblicazione su web 24/02/2005  

Non contravviene alla regola che i film che restano nella storia raramente occupano un posto nei palmares dei Festival. Il bellissimo, ma certo non facile, Solnze (Il sole) di Aleksandr Sokurov. Certo non post-prandiale, e nemmeno da gustare a colazione, personalissimo ma non vetrina di aristocratica incomprensibilità, il film costituisce la terza tappa di un progetto artistico e storiografico coerente e difficile, volto alla riflessione sulle dittature, o meglio i totalitarismi, del secolo scorso.

Dopo la prima tappa dedicata nel 1999 ad Adolf Hitler (Moloch) e la seconda, del 2002, a Lenin (Taurus), il grande regista turkmeno-polacco affronta il mistero del meno indagato e quindi del più sconosciuto tra i potenti della terra della seconda metà del secolo scorso: l’ imperatore del Giappone Hiro Hito, centoventesimo della dinastia e, secondo i suoi sudditi, dio in terra. Contrariamente agli altri due questo “Sole” (da Nerone in poi non esiste dittatore che non si sia o non sia stato associato alla fonte della vita e della luce) non è mai stato troppo studiato. Anche Sokurov (che nasce storico puro e dello storico raffinatissimo e incontentabile ha l’esigenza del documento, inappagato dalle superfici delle apparenze) ha sondato non senza difficoltà i segreti degli archivi.


Come gli altri due “incomprensibili” (c’è sempre nell’abnormità stessa del fenomeno dittatoriale qualcosa di misterioso), Hiro Hito viene indagato in un momento cruciale della sua vita che non è però, come per gli altri, il momento del trauma definitivo della morte (l’imperatore regnerà ancora oltre un quarantennio) ma quello della perdita della divinità. Perché al contrario degli altri due, che il potere lo avevano conquistato con l’aggressività della lotta, l’imperatore non sa cosa voglia dire combattere: il discendente di una schiatta di prescelti dagli dei affida la lotta, non per delega, ma come compito naturale, ai suoi dignitari, ai suoi generali (tutti comunque suoi servitori).

Issey Ogata
Issey Ogata

 

Il crepuscolo di questo Dio è fotografato dallo stesso Sokurov splendidamente, nella semioscurità del bunker in cui si muove dopo il bombardamento del palazzo imperiale o negli angosciosi sotterranei che lo portano all’amato laboratorio di idrobiologia. La grande Storia che sta per farsi (e disfarsi) viene angosciosamente descritta per dettagli minimali, per comportamenti cerimoniali e per spostamenti quasi impercettibili: dominano gli inchini, il silenzioso fruscio di dignitari che si muovono compassati, di ciambellani e servitori ombra, persino il rancore perdente di generali irosi è congelato nell’autocontrollo. Tutto è irreale, anche la città devastata dalle bombe, resa con una sensazione di gelo, di morte e di oscurità del destino per la quale non abbiamo riscontri figurativi nella nostra memoria personale.

Il piccolo scienziato malaticcio (interpretato con geniale originalità da Issey Ogata che anche lui forse, come il suo regista, avrebbe meritato qualcosa di più che la gioiosa unanime esclusione di questa giuria) la attraversa senza apparente emozione per andare incontro al suo vincitore, il generale MacArthur. I grandi e oscuri saloni della residenza del vincitore paiono rendere ancora più piccolo il dio in terra. A poco a poco però (Sokurov ha ascoltato tutti i nastri dei colloqui tra il generale e l’imperatore e consultato tutti i dignitari superstiti) l’incomunicabilità si trasforma e il generale (non c’è bisogno di esplicitare paragoni con l’oggi perché la Storia ci insegni) capisce quest’omino buffo: i suoi soldati lo paragoneranno a Charlie Chaplin quando accetterà di farsi eternare nelle foto di guerra dei vincitori). Uomo di pace nonostante i massacri dei suoi generali, sceso in terra a parlare con i suoi sudditi solo due volte (sono appunto i momenti in cui il film lo ritrae): il 15 agosto del 1945 per comunicare la resa agli americani e salvare il suo popolo da un inutile massacro e il 1 gennaio del 1946 quando rinunciò ufficialmente alla sua dignità di dio in terra, salvando altre migliaia di uomini che ritenevano loro dovere morire, comunque, per il loro dio. Mac Arthur lo difese, alla fine della Guerra, impedendo la sua chiamata come criminale. L’imperatore non più dio ha regnato per altri 43 anni.

Il bellissimo film non scioglie, non vuole assolutamente sciogliere, il suo mistero, secondo la poetica dell’autore per il quale “compito dell’arte non è giudicare gli uomini, ma osservare il loro spingersi infinitamente in alto o infinitamente in basso”.     







Il sole
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Solnze




 
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