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Meditazione sulla memoria

di Sara Mamone
 
Data di pubblicazione su web 24/02/2005  

Tra i molti film che il festival di Berlino ha presentato, impegnati a riflettere sul passato non troppo remoto del secolo scorso (Sophie Scholl, Solnze, Hotel Ruanda,  Sometimes in April, e in qualche modo anche il sorprendente vincitore U-Carmen) un posto particolare può forse essere assegnato a Le promeneur du Champ de Mars, di Robert Guédiguian dal libro di Georges-Marc Benamou Le dernier Mitterand, consacrato, come recita fin troppo didascalicamente il titolo, all’ultimo periodo di vita e di regno del leader socialista francese.

Benchè il tema possa per qualche verso apparire analogo a quello che Sokurov ha dedicato all'imperatore Hiro Hito, (la fine di un potere e la riflessione che su questo fanno gli stessi protagonisti) l’anima e la cultura, anche filmica, che vi stanno dietro sono agli antipode. Sokurov si pone davanti al mistero impenetrabile di un potere teocratico che scende a patti con una Storia incomprensibile, mentre Guédiguian, autore chiaro e di obiettivo popolare, tenta davvero, con gli strumenti di una cultura dialettica e riflessiva, di spiegare l’uomo che per quattordici anni ha retto la Francia in nome di quell’ideale socialista che faceva parte del suo programma elettorale ma che nella prassi di governo restó poi largamente e cinicamente disatteso.


Nel dibattito sulla politica e sulla figura di Mitterand si sono inseriti il libro, e ora il film, che paiono subire il fascino meduseo di una personalità che ha corrisposto appieno alla pratica della doppia verità e che proprio negli anni finali, nell’incontro pilotato con un giovane giornalista desideroso di padri e di ideali, pare aver trovato il portavoce di un’ultima seduzione mistificatrice. Il Mitterand che esce da queste passeggiate nel luogo così carico di senso storico del Campo di Marte è, probabilmente, ancora una volta, quello che Mitterand stesso voleva che uscisse e a poco in questo senso vale l’invenzione del giovane interlocutore: ci dispiace per il regista che lo considera un alter ego e comunque un interlocutore paritario, a noi è sembrato poco più che un Simplicio messo opportunamente, con i suoi dubbi e con la sua vita personale, al servizio dell’immagine del Presidente. Non giova probabilmente alla scoperta della verità, e quindi ad un serio dibattito chiarificatore, l’interpretazione di Michel Bouquet, assolutamente superlativa sia per inquietante identificazione fisiognomica, sia per istrionica seduzione: forse un pensierino per il premio al miglior attore si poteva anche fare a meno che il criterio non sia ormai soltanto quello di premi di incoraggiamento.

Il film cambia completamente faccia, e valore, se lo si allontana dalle intenzioni, per lo meno quelle dichiarate, dell’autore, cioè da un volenteroso cinema inchiesta in cui la mistificazione percepita è per lo spettatore occasione di fastidio e irritazione, e lo si lascia navigare da solo. Dimenticati sciarpa, capotto, cappello e tutti i gadget della mitografia mitterandiana, Bouquet interpreta, con splendida varietà di accenti e coscienza di mistificazione d’artista, la sua meditazione sulla vecchiaia e sulla paura; mette in campo tutti i mezzi e mezzucci per nascondere l’angoscia della perdita: del potere (qualunque, anche piccolo, esso sia), della dignità nella malattia, dell’ incompiutezza nella costruzione del proprio (piccolo o grande) mito. E allora forse da qui possiamo ripartire per una meditazione sul potere, e sulla memoria.

Adieu Monsieur le President.













Le passeggiate del Campo di Marte
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