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Lasciate che i fanciulli...

di Roberto Fedi
  Claudio D'Agostino in "Il miracolo" di Edoardo Winspeare, 2003
Data di pubblicazione su web 11/02/2005  

Non è la prima volta che ci occupiamo delle lacrime in Tv. Saremo anche monotoni: ma, secondo noi, la commozione come ogni altro sentimento è una cosa seria. Quindi va salvaguardata, rispettata, tenuta da conto. Non  si può usarla come un fondotinta, che qualcuno mette per lisciare qualche ruga, e che si tira fuori solo quando serve.

Per esempio, la malattia del papa. Giusto che i telegiornali se ne occupino: il ricovero in ospedale, la guarigione (auguri)… È stata una delle prime notizie dei tiggì per qualche giorno. Opportuno che ne diano precisi referti: bollettini medici, qualche immagine presa col teleobiettivo, la mano che si leva nella benedizione dalla lontana finestra. È una personalità pubblica, ed è anzi il primo papa, gliene va dato atto, che ha reso noto il suo stato di salute, una tempo circondato dal più totale mistero (il caso del suo predecessore è addirittura enigmatico).

Papa Wojtyla
Papa Wojtyla


Tutto bene, quindi. Ma i nostri giornalisti televisivi non si accontentano. Sono abituati allo strazio, alle lacrime in diretta. Sbavano se possono mostrare una madre che piange per aver perso il figlio, un padre addolorato, un filmato choc. Non dormirebbero la notte pur di chiedere a qualcuno che ha appena avuto un lutto atroce o una grande emozione ‘che cosa prova’ (non ci crederete: ma mercoledì 9 febbraio, quando allo stadio di Cagliari prima della partita Italia-Russia hanno premiato Gigi Riva, il giornalista Paris – ci sembra – ha chiesto in diretta Rai Uno a Rombo di Tuono, come lo chiamava il grande Brera, ‘cosa stai provando in questo momento’: e noi abbiamo sperato che il Re Brenno – ancora Brera – per l’ultima volta con il suo squassante sinistro – vedi sopra – lo buttasse diritto in porta).

E allora come si fa a rendere quella ricorrente notizia, ormai un po’ sbiadita (visto che ormai è chiaro che il papa sta bene), commovente? Tale da strappare un singhiozzo? Da far spuntare una lacrima anche ai laici? Anche ai mangiapreti? Anche a quelli che del papa farebbero volentieri a meno?



Si fa così. Si riferisce (e certo sarà vero: ma ammetterete che una volta raccontata questa storiella assomiglia a una brutta pagina da libro Cuore, chiedendo scusa a De Amicis) che accanto a quello del papa c’è il reparto dei bambini malati di tumore. Cosa che già sposta la questione verso un dramma che non lascia indifferente nessuno. Perché siate onesti e dite la verità: anche voi che state leggendo, a questo punto, vi siete sentiti un groppo in gola. Ecco che allora l’attenzione dello spettatore del tiggì, annoiata, si è risvegliata come per una molla sentimentale. È una frustata.

Una volta carpito l’ascoltatore-spettatore distratto e ora attentissimo e commosso (le immagini sono di repertorio: quindi bisogna puntare allo stomaco), ecco la story. Un bambino di quel reparto, saputo che c’era il papa lì accanto, ha chiesto di vederlo. È stato accontentato. Appena è stato vicino a lui gli ha detto “Santo padre, fammi guarire”.

Questa tristissima storia (triste di per sé, e anche perché inutile, arrogante, impietosa, e perché sfrutta biecamente un sentimento onesto come la commozione) è andata concordemente in onda su quasi tutti i telegiornali del 9 febbraio, e il Tg5 l’ha messa anche nei titoli di testa con l’invocazione del bambino malato appunto come titolo.

Anche la vergogna è un sentimento onesto. Come tale, è di solito generalmente e televisivamente del tutto ignota.




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Un 'devoto' pellegrino prega di fronte al Policlinico Gemelli attorniato dalle telecamere 




 
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