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Scorsese alla corte di Hughes

di Marco Luceri
  Leonardo Di Caprio
Data di pubblicazione su web 09/02/2005  

Dopo il bellissimo e bistrattato Gangs of New York (2002) Martin Scorsese non abbandona i toni epici e grandiosi e ci propone con l’ultimo The aviator una gigantesca rilettura cinematografica della vita di uno dei personaggi più controversi, folli ed eccessivi della storia americana, il miliardario aviatore Howard Hughes: "In modo molto sintetico e secco posso dire che Hughes era attratto quasi morbosamente dagli aerei, dal cinema e dalle donne. L’ordine delle priorità di queste tre passioni (non erano le sole) non era esattamente questo. Con il passare degli anni (e la sceneggiatura ed il film raccontano un arco di tempo che va dal 1927 al 1947) due di queste ossessioni sono sbiadite mentre ha resistito quella per gli aerei e per l’ingegneria aereonautica. Non mi sarebbe dispiaciuto dedicare più spazio a Hollywood anche perché quel periodo è stato fondamentale per l’industria cinematografica. Una delle sfide del copione era tentare di ricreare quell’ambiente nello stile dei grandi dell’epoca: Vincente Minelli, George Cukor, King Vidor, John Ford".

In queste parole del grande regista newyorkese è possibile cogliere alcuni importanti spunti per un’attenta analisi del film. Quando un autore come Scorsese si muove sul terreno sempre insidioso di un film biografico, e in particolare di un ricco e spregiudicato magnate come Howard Hughes (Leonardo Di Caprio), il pensiero corre sempre al film che del genere è un irrinunciabile caposaldo e cioè Quarto potere (1941) di Orson Welles. Proprio perché esso è una sorta di studio faustiano sull’America al cento per cento, si comprende bene la scelta di Scorsese di inserirsi nel solco della (corta) tradizione wellesiana: raccontando la storia di Hughes, egli racconta non solo la vita di un’unica persona, ma un pezzo importante della storia degli Stati Uniti, il periodo cioè in cui si gettarono le basi dell’aviazione moderna. Se Welles in Quarto potere aveva iniziato il racconto dalla morte di Kane, costruendo poi il film sui flashback, in The Aviator Scorsese si concentra il tronco narrativo principale su un solo momento dell’esistenza di Hughes e su alcuni tratti della personalità che ne danno il senso: la passione per gli aerei. In quello che è sempre stato il mezzo del futuro, la realizzazione dell’irrinunciabile desiderio umano di volare, diventa nella battaglia pioneristica di Hughes l’elemento più importante della sua vita, l’unico sogno a cui si può concedere tutto e sotto cui nascondere e far affondare ogni pretesa, ogni velleità, ogni altra passione umana, dalle donne alla fama, alla ricchezza.

Si capisce bene di che pasta è fatto il personaggio di Hughes nella vicenda che porta alla realizzazione de Gli angeli dell’inferno (1930) in cui il giovane magnate concentra ogni sforzo creativo ed economico nella realizzazione di quella che fino ad allora sembrava una semplice utopia, un kolossal da ben quattro milioni di dollari. Il giovane Hughes riesce a creare un binomio indissolubile tra la passione per gli aerei e quella per il cinema, infrangendo a poco più di vent’anni la sottile linea che separa la realtà vissuta da quella sognata. Energico, felice, stravagante, il magnate viene proiettato nell’empireo di Hollywood ed è proprio nel suo rapporto con la macchina hollywoodiana che si concentrano i momenti migliori di The Aviator

Siamo in una Hollywood lontana anni luce da quella odierna, era veramente quella l’epoca dei pionieri: i nomi degli autori citati in precedenza sono stati cineasti fondatori, innovatori, apripista che hanno infranto gran parte delle regole precedenti, cercando di creare un nuovo tipo di cinema. Lo stesso Hughes, del resto, si imbarcò dopo il primo film in vere e proprie avventure cinematografiche come Scarface, un film di straordinaria violenza per i tempi e Il mio corpo ti scalderà (1943), in cui le ampie scollature sui seni dell’esordiente Jane Russell destarono scandalo nell’America provinciale e puritana che mandava i suoi figli a combattere in Europa. Ma c’è di più, naturalmente: si intravede sempre in The Aviator la volontà manifesta da parte di Scorsese di rendere omaggio a quella che è stata, nel bene e nel male, una delle stagioni più importanti della storia di Hollywood, anche se il regista newyorkese non scade mai nell’apologia; sembra piuttosto una sorta di deferenza nei confronti di chi ha saputo vedere nel cinema un orizzonte su cui scommettere tutta la propria vita, condensando in essa il celebre "sogno americano", di cui Hughes è una manifestazione. Tutta la prima parte del film vive allora di questo innamoramento tra il cinema e i suoi protagonisti, anche grazie alla strepitosa ricostruzione ambientale realizzata grazie alle scenografie di Dante Ferretti e ai costumi di Sandy Powell.

Questa sottile metafora che accomuna gli aerei al cinema non può che rendersi ancora più esplicita nel rapporto che Hughes intrattiene con le tante dive di cui è stato amante. Ne scorrono tantissime nel film, da Jean Harlow (interpretata dalla pop star Gwen Stefany) ad Ava Gardner (Kate Beckinsale), ma è sul rapporto con Katherine Hepburn che Scorsese concentra maggiormente l’attenzione del racconto. La grande attrice (interpretata da Cate Blanchett, qui in una delle prove più difficili della sua carriera) che ha avuto storicamente il merito di ribaltare molti dei modelli della femminilità hollywoodiana è per molti versi il contrario del suo amante (la loro relazione durò dal 1937 al 1941); lui spregiudicato capitalista, arrivista e megalomane, lei appartenente all’elegante alta borghesia colta e liberal, dalle vaghe idee socialiste; eppure il film riesce ad accomunarli in ciò che sembra essere il binario su cui corre tutto il film: la volontà di rischiare, di spingersi oltre i limiti, correndo anche il rischio di sembrare completamente off nella società americana malata di immagini e di divismo.

Se l’ascesa di Hughes, nella prima parte del film, sembra irresistibile, nella seconda parte, come accade per il gangster Harry Hill di Quei bravi ragazzi (1991), il magnate dell’aereonautica sconta i suoi peccati, è costretto cioè a pagare tutto ciò che ha avuto. E’ qui che Scorsese riprende in maniera forte la sua tipica tensione morale, dimostrandoci per l’ennesima volta che il sogno americano è sempre un’arma a doppio taglio: il racconto diventa allora una lenta, ma costante discesa all’inferno di un uomo che ha tutto e che viene demolito dal suo stesso mondo. Hughes diventa cioè la vittima ideale della società a cui egli stesso aveva saputo strappare aiuti e favori. Da affarista e corruttore, viene stritolato nella morsa delle regole occulte che dominano il capitalismo americano, e cioè dal connubio affari-politica che lo confina in un isolamento delirante. Ma come in tutti i grandi personaggi dell’epopea di Scorsese, anche Hughes conserva in sé una forte componente di autodistruzione, indipendente dagli eventi, ma su di essi molto influente. E’ una persona psicologicamente disturbata sin dall’infanzia, germofobico ed ossessionato dalla pulizia degli ambienti e della propria fisicità, una follia che lo porterà poi (ma di questo il film non ne parla) a vivere gli ultimi trent’anni della sua vita senza vedere la luce del sole, abbarbicato a una lucida follia che gli impedì di lavarsi, vivere e comunicare fino alla morte (5 aprile 1976).

Una differenza sostanziale tra la prima e la seconda parte del film si nota anche grazie al registro recitativo di Di Caprio. L’approccio al personaggio che l’attore ha realizzato, privilegia la sostanza psicologica piuttosto che quella fisica (un bel cambio di rotta se pensiamo al De Niro ingrassato di trenta chili per l’interpretazione di Jack La Motta in Toro scatenato) e Di Caprio è molto convincente nella prima parte proprio nel dare una ricca gamma di sfumature al carattere di Hughes, oltre naturalmente a una certa somiglianza fisica nello sguardo e nel modo stesso di porsi da parte del giovane aviatore. Questa assonanza tende però a scricchiolare nella seconda parte del film (complice anche qualche svista registica), quando l’esuberanza del personaggio cede il passo all’età adulta e al precipitare degli eventi. Nel complesso però resta buona la prova di Di Caprio, che dall’alto del suo indiscutibile mestiere riesce a non andare mai oltre misura, e a reggere per ben tre ore il ruolo di un personaggio così poliedrico e complesso.

The Aviator resta innegabilmente una grande prova di mestiere anche per Scorsese che sembra privilegiare ormai da Gangs of New York i poderosi affreschi storici rispetto al minimalismo poetico degli esordi; naturalmente resta comunque vivo il discorso sul presente, nel senso che appare chiaro ormai come il regista newyorkese si stia spingendo sempre più verso una soggettivizzazione della Storia: sono gli uomini a determinare gli eventi e non viceversa, come se studiare le singole biografie permettesse di studiare le cause degli eventi storici e di rimuoverne gli effetti. Forse un altro modo di capire chi siamo e dove stiamo andando.











The Aviator
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