Labbiamo detto altre volte: guardare la televisione ci fa sentire imbecilli. È ciò che una autorevole (per matrimonio) signora definì tempo fa la “televisione deficiente”, e fu lunica volta che lesternazione ci sembrò appropriata. Così, quando ci accade di vedere un programma come si deve rimaniamo sconcertati: quasi non ci si crede.
È quello che ci è successo venerdì 14 gennaio. Su Rai Tre, alle 21, è andato in onda uno splendido documentario (ma sarebbe meglio chiamarlo film-inchiesta) su un aspetto sconosciuto della vita e della figura di Mussolini, e degli anni del fascismo: Il segreto di Mussolini. Realizzato da due bravissimi film-makers italoamericani, Fabrizio Laurenti e Gianfanco Norelli, in coproduzione con “La Grande Storia” di Rai Tre e la partecipazione della Provincia Autonoma di Trento. Se volete il nostro parere, un modello di programma, da far vedere nelle scuole di giornalismo televisivo.
Largomento era, almeno per noi, ignoto: la storia tragica e veramente rivelatrice e simbolica del figlio segreto di Mussolini, Benito Albino, e della madre Ida Dalser, di Trento: che il futuro duce aveva conosciuto e frequentato a Milano quando già aveva una figlia, Edda, da Rachele Guidi, in seguito donna Rachele. Benito Albino, che crescendo per colmo di tragica ironia somigliava come una goccia dacqua al padre degenere (ma con unaria profondamente triste e segnata), nacque nel 1915, e venne riconosciuto dallallora giornalista e bersagliere Mussolini, che lo vide per tutto il resto della sua vita solo quella volta. Divenuto poi capo del Governo e duce, cercò in tutti i modi di togliersi dai piedi e di non far apparire pubblicamente quella donna ingombrante e decisa a far valere i suoi diritti, e quel figlio incolpevole, sicuramente in grado di turbare limmagine di uomo forte e donore che la propaganda del regime e lui stesso stavano elaborando. Padre amoroso e marito plurifedifrago andavano bene (era una miscela perfettamente italian style); ma figli illegittimi in giro neanche a parlarne.
Si incaricò della faccenda, in puro stile mafioso, il fratello Arnaldo, direttore del Popolo dItalia. Così il figlio venne tolto alla madre e affidato a uno zelante fascista di Trento, che ne ebbe più duna prebenda e una carriera fulminante nella pubblica amministrazione (tale Bernardi, che poi lo adottò per dargli il suo cognome e cancellare quello ben più imbarazzante del duce). La madre, che per tutta la sua tragicissima vita non fece altro che scrivere lettere a qualsiasi autorità per urlare la sua disperazione, senza naturalmente ottenere alcun ascolto (neanche dal papa Pio XI, ovviamente), fu chiusa in un manicomio dal 1926 e fatta passare per pazza. Dal manicomio riuscì a fuggire per raggiungere i parenti da cui riteneva che fosse allevato il figlio; non trovandolo, precipitò ancora di più nella disperazione, venne ripresa e di nuovo internata.
Nel frattempo il povero Benito Albino era arruolato a forza nella Marina, sorvegliato a vista e spedito in Cina; da lì, richiamato da un crudelissimo telegramma con la falsa notizia della morte della madre (che gli era proibito vedere da anni, ma a cui scriveva lettere strazianti sempre intercettate dalla censura), venne sbarcato e arrestato a Brindisi e portato anche lui incredibilmente in manicomio nel 1935, dove sarebbe morto nel 1942, non ancora ventisettenne (dopo che ufficialmente era stato dichiarato caduto in guerra nel 1941). La madre aveva anticipato la sua sorte morendo anche lei in manicomio, a Venezia, nel 1937. Entrambi vennero sepolti in fosse comuni, per una orrenda forma di damnatio memoriae.
Attraverso una indagine storica di prima mano, grazie alla quale una storia piccola diviene storia di un periodo, e che ha portato anche alla scoperta di documenti sconvolgenti (lettere della madre e del figlio, referti medici ad hoc, relazioni della polizia), i due autori mettono insieme unopera fondamentale, straordinaria per la ricostruzione storica e ambientale, perfetta come montaggio e ricorso alle interviste di sopravvissuti rintracciati per loccasione e ancora oggi commossi dalla terribilità della vicenda (su tutti lunico amico, ora novantenne, che fu con il ventenne Benito in Marina, e che non poté aiutarlo: un modello di come si può condurre unintervista allo stesso tempo asciutta e toccante, più vera del vero, come si dovrebbe fare in televisione). Sbalordisce la consistenza e la ramificazione delle trame che il regime riuscì a mettere in atto per ingabbiare e uccidere questi due poveri innocenti: spie, poliziotti, medici, psichiatri, federali, prefetti, direttori di ospedali, questori, militari. Centinaia di persone legate allillegalità e allomertà, e coinvolte nel duplice omicidio legalizzato. Una persecuzione che lascia inorriditi, quasi increduli. Una sineddoche dellItalia degli anni Venti e Trenta, da studiare a scuola. Il tutto accompagnato da un commento intelligente e sobrio, informato e asciutto, letto dalla voce narrante di Gioiele Dix, bravissimo.
È un modello di come dovrebbe essere usata la televisione pubblica: con serietà e consapevolezza, grande bravura, approfondimento, senza rinunciare allinteresse. Se un domani (che crediamo lontanissimo) un riassetto della Rai dovesse riportarla a essere una cosa più agile e seria, e non becera né “deficiente”, veramente aperta al pubblico interesse e non alle porcherie oggi in auge, questopera sarebbe ricordata come una pietra miliare. Come ha scritto in un bellarticolo Sergio Luzzatto (Così il Duce distrusse la famiglia segreta, “Corriere della Sera”, 14 gennaio), è unopera che fa giustizia del luogo comune oggi strisciante del “duce buono”, e del fascismo come periodo in realtà tranquillo, benevolo, e magari da rimpiangere.
Chiedetelo ai due poveri “folli” Benito Albino e Ida Dalser, più che alla sanissima nipote e ai disinvolti fans del duce “buono”.
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