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Il teatro totale incarnazione del poema del mondo

di Sara Mamone
  I La Galigo
Data di pubblicazione su web 25/06/2004  
Non è facile recensire I La Galigo, la Nuova opera di teatro, danza e musica di Robert Wilson, ispirata al poema epico Sureq Galigo, del Sulawesi del sud (Indonesia), come recita il titolo descrittivo della grande opera presentata al Festival di Ravenna come evento dell'edizione 2004, consacrata alle Illuminazioni sulla via di Damasco. Come l'autore, che ha ritenuto opportuno dotarla di un sottotitolo che ne sciogliesse un po' la suggestione misteriosa del titolo, il recensore potrà solo fornire qualche indicazione aggiuntiva ad un'opera praticamente impossibile da descrivere, se non con i termini banali della sfolgorante bellezza figurativa, dell'emozione provocata dalla magistrale concatenazione di recitazione, danza, musica, costumi, effetti illuminotecnici portati ad un registro di perfezione difficilmente superabile, o viceversa dalla mancanza di emozione provocata dalla wilsoniana algidezza, qui resa estrema proprio dalla insuperabile perfezione estetica.

Insomma, considerazioni soggettive più che mai, e diametrali. Fermiamoci perciò a descrivere l'operazione di Bob Wilson che si colloca comunque, anche soltanto per l'ambizione e il respiro del progetto, tra gli spettacoli memorabili (e purtroppo si teme non facilmente visibili al di fuori dei festivals) di questi ultimi anni. L'ambizione di un teatro totale, capace di unire con la stessa dignità protagonista teatro danza e musica, trova un precedente analogo in uno degli spettacoli feticcio della seconda metà del secolo scorso, a cui questa realizzazione di Wilson si rifà per molti aspetti: il prodigio del Mahabarata di Peter Brook che a suo tempo sconvolse i canoni dello spettacolo e delle certezze anche culturali dell'Occidente, con un'operazione appassionata e poetica di immersione nella cultura e nell'arte indiana, andando alle radici della comune cultura, con uno stuolo di attori della sua compagnia multietnica messi a confronto, con un training lungo anni, e con la mediazione della drammaturgia di Jean-Claude Carrière. Reso "esportabile" in una versione che durava nove ore, lo spettacolo presentava gli episodi salienti del lunghissimo poema indiano incentrato sulla lotta titanica tra due clan di cugini. Lo spettacolo rompeva ogni abitudine teatrale. Caratterizzato dalla lunghezza spropositata, non poteva essere rappresentato nei luoghi canonici e diede così un impulso formidabile alla reinvenzione del teatro come evento, come sperimentazione di luoghi e rapporti, come fulcro del mutamento del punto di vista. 

Tra gli artefici di questa lacerazione, che strappava appunto il teatro alle certezze di una pacifica operazione di autoconferma (Barba, Peter Stein, etc.), Bob Wilson occupa un posto di rilievo, anche se lo separa dagli altri un'accentuazione del dato formale che a volte resta fine a se stesso. Già misuratosi con la riscoperta del mondo, negli anni '70, con lo spettacolo di sette giorni e sette notti a Shiraz su commissione dell'allora trono imperiale di Persia, Bob Wilson si ispira questa volta al lunghissimo e in parte misterioso poema epico dei mari del sud, inventato nel corso dei secoli dalla tradizione orale dei pirati e, come i grandi poemi epici, ricco di contraddizioni e di consonanze con le altre grandi prove anonime del passato. 

In questo caso, forse, alla nostra cultura occidentale suona in qualche misura fratello delle avventure di Ulisse. Come il poema omerico, infatti, il grande racconto del Sulawesi del Sud indonesiano narra le grandi peregrinazioni dell'eroe e il suo contatto con uomini stranieri e divinità. Ma soprattutto, prescindendo dal racconto minuto di una pur grande storia, narra la creazione del mondo degli uomini, un mondo che sta a metà altezza tra quello degli dèi celesti e quello degli dèi inferi, arrivando a descrivere la prima era di regno dei discendenti divini (figli, lui del re del cielo e lei di quello inferico). L'astrazione della teogonia si materializza nella visionarietà di una vicenda "umana", quella dei due gemelli figli dell'unione dei due dèi, e del loro fatale amore: pulsione mistica e ancestrale più che melodramma, nata nel grembo materno e continuata tutta la vita. La sorella resiste all'amore e si ritira in convento, lui ne rispetta i voleri e, dopo gli inevitabili sperdimenti, si sposa con una cugina cinese, copia identica dell'impossibile incestuoso amore sororale. Da questa avrà un figlio, l'eroe eponino I La Galigo che, divenuto grande, affronterà il mondo con nuove imprese. Un giorno, mentre vive le sue avventure, I La Galigo viene richiamato dal nonno: tutti i discendenti degli dèi devono tornare a Luwuq, da dove si erano allontanati, per una riunione di famiglia, durante la quale i due gemelli potranno incontrarsi per l'ultima volta prima di ritornare ai loro luoghi di provenienza. Il mondo terrestre privo di dèi sprofonda nel caos fino a che i discendenti dei due fratelli, uniti in matrimonio, diventeranno i sovrani del "mondo di mezzo". L'arcobaleno sul quale gli dèi avevano viaggiato tra i tre mondi viene arrotolato, i cancelli di passaggio vengono chiusi per sempre. Da quel momento in poi non ci saranno interferenze tra i due mondi. 

Non si può fare torto maggiore ai poemi epici che raccontarne la trama, che impoverisce irrimediabilmente la ricchezza fantastica del loro procedere agglutinato e illogico, delle loro grandi deviazioni narrative, del prevalere della fantasia sulla razionalità. Il mondo del poema indonesiano non fa certo eccezione e il solo risarcimento che gli si può accordare è quello di replicare la sua irraccontabilità, per la quale Wilson sceglie la sola strada possibile dell'opera totale, affidando all'energia e alla maestria di un complesso di cinquanta straordinari attori-danzatori indonesiani, alle musiche del compositore e direttore musicale Rahayu Supanggah, alle voci del coro e soprattutto alla forza della narrrazione di Puang Matoa Saidi, che racconta la vicenda nello stile sacerdotale della comunità bissu, il ruolo di tramite. Certo della loro adesione alla cultura di provenienza, Wilson mette poi a disposizione, senza infingimenti etnici, la propria occidentalissima visione del mondo e, soprattutto, il proprio occidentalissimo magistero tecnologico, la sua inventiva figurativa, l'uso sovrumano di luci e trasparenze.



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