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L'inconsistenza del vuoto esistenziale

di Fabio Tasso
  Ian Somerhalder
Data di pubblicazione su web 16/04/2004  
Nel 2001 uscì negli Stati Uniti la versione cinematografica di American Psycho, il romanzo di Bret Easton Ellis che, pubblicato esattamente dieci anni prima, aveva sconvolto il paese con una feroce critica allo yuppismo anni Ottanta, condita con una serie di atrocità commesse dal protagonista degne di "Hannibal The Cannibal" e ai limiti della sopportabilità. Già tre anni fa il principale argomento di discussione non era tanto la qualità del film (mediocre) o la presunta fedeltà al testo scritto (molto labile), quanto l'opportunità di tradurre al cinema un'opera letteraria a dieci anni di distanza dalla sua uscita.


È pur vero che la storia del cinema abbonda di film tratti da opere pubblicate decine, spesso centinaia di anni prima, e questo non sembra aver mai rappresentato un problema. Ma il discorso cambia, crediamo, per i romanzi di Ellis che, per usare una formula nota, sono "figli del proprio tempo". Fa un certo effetto, per esempio, prendere in mano oggi un romanzo come American Psycho, così intrinsecamente legato al decennio della restaurazione reganiana da risultare, nei temi e nei modi, già quasi superato. È vero anche, e ciò è innegabile, che la prospettiva storica, allontanando gli eventi, permette all'opera di diventare analisi critica dell'epoca, cristallizzandone le forme, gli usi e i costumi, scavando tra le sue contraddizioni e mettendone in luce i lati nascosti. Ma realizzare un film da un romanzo così indissolubilmente legato al suo tempo, e farlo a tanti anni di distanza, significa perdere il senso di "presa diretta" sulla realtà, riducendo il tutto a una mera operazione commerciale o, nel migliore dei casi, a un nostalgico revival del tempo che fu.

Shannyn Sossamon e Jessica Biel

 
I romanzi di Ellis, peraltro, non sono tra i più facili da portare sullo schermo. Lo ha dimostrato, se mai ce ne fosse bisogno, la versione cinematografica di Meno di zero (in italiano Al di là di tutti i limiti, 1987), realizzata a un paio d'anni di distanza dal romanzo e passata quasi inosservata perfino in patria. Perché? Perché nei romanzi di Ellis, ciò che conta davvero non è la storia, caratterizzata da una drammaturgia debole e che spesso è così sfumata da risultare impercettibile (American Psycho, per esempio, dura più di un anno, ma sembra ambientato in un eterno presente); non sono nemmeno i personaggi, che sono quasi sempre funzioni del narrare e comunque soverchiati dal progetto narrativo globale, qualcosa di "altro" da se stessi. Ciò che conta davvero, nei romanzi di Ellis, è l'atmosfera: la capacità, cioè, di raccontare un mondo, una realtà, una situazione, definendone le coordinate e mettendone in luce le sfaccettature meno evidenti. È l'hinc et nunc che la fa da padrone, in questi romanzi; e il "qui e ora" difficilmente permette una transizione temporale che esuli dall'immanenza e mantenga la sua capacità di assestare dolorosi "pugni nello stomaco".


Che cosa dire, quindi, di Le regole dell'attrazione? Che, viste le premesse appena esposte (il romanzo, antecedente ad American Psycho, è del 1988; pertanto sono sedici gli anni che separano libro e film), non poteva che essere un'opera fallimentare. Eppure, chi scrive aveva sperato in un exploit, in virtù del fatto che la regia era curata da Roger Avary, già collaboratore di Tarantino e autore dell'interessante Killing Zoe (1993). Ma questa nuova opera di Avary non presenta che una percentuale ridottissima di quanto il regista americano aveva mostrato di saper fare nei primi anni Novanta.

James Van Der Beek, Roger Avary, Eric Stoltz sul set
 
Le regole dell'attrazione è, infatti, un film lezioso, prolisso, insopportabilmente privo di quell'autoironia, che, incidentalmente, era una delle qualità migliori del primo Tarantino e dello stesso Killing Zoe. Avary, senza mezzi termini, mette insieme il peggio del suo amico-mentore e di Ellis: violenza, linguaggio scurrile, inutile ostentazione di maestria tecnica fine a se stessa (valgano come esempio le terrificanti sequenze iniziali, riprodotte al contrario senza alcuna apparente giustificazione), il tutto accompagnato da un'insolente gratuità che sembra farsi beffe dello spettatore e della sua capacità di sopportare per molti minuti un profluvio di immagini senza capo né coda.


Del libro Ellis c'è, soprattutto, l'assenza di una storia e il tentativo (la necessità) di mostrare un gruppo di studenti di un'anonima università americana alle prese con problemi di droga, sesso, conflitti familiari, ecc. e di fatto alienati in un aberrante vuoto esistenziale. Ma la mancanza di una coesione spazio-temporale e la volontà, fin troppo evidente, di creare un cult generazionale, riducono il film a un insieme confuso di immagini che procedono senza soluzione di continuità, sempre in bilico tra il desiderio (abortito) di farsi implacabile analisi sociologica e lo sconfinamento nel più banale e usurato ammiccamento allo spettatore. I personaggi, fantasmi senza sostanza, sguazzano in un pantano dal quale neppure il film riesce più a uscire, fino alla peggiore delle ipotesi: il finale che non chiude nessuna storia, lasciandole aperte tutte.

Le cronache rivelano che Avary sta preparando la versione cinematografica di Glamorama, ultimo romanzo di Ellis, uscito nel 1999. Che una maggiore vicinanza temporale permetta finalmente di realizzare l'exploit tanto atteso?

 


Le regole dell'attrazione
cast cast & credits
 

Locandina




 
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