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Il delirio di Marianna, monaca per forza

di Carmelo Alberti
  La Monaca di Monza
Data di pubblicazione su web 26/09/2004  
Il programma del 36° Festival Internazionale di Teatro, promosso dalla Biennale di Venezia e curato – solo per il 2004 – da Massimo Castri, è dedicato alla drammaturgia italiana del nostro tempo; il progetto artistico intende sviluppare una verifica-inventario sulle scritture per la scena in Italia, a partire dalla linea di confine stabilita nell'azione di due scrittori emblematici e atipici, quali Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori; entrambi, ciascuno a suo modo, hanno provato ad inventare una soluzione al problema della lingua teatrale. Si tratta di agganciare l’indagine sui giovani autori e sui giovani registi al doppio limite Pasolini-Testori, mentre si ripropongono due lavori poco rappresentati come Bestia da stile di Pasolini e La monaca di Monza di Testori. 

È spettato al dramma testoriano inaugurare la rassegna del 36° Festival internazionale del teatro; il truce delirio di Marianna de Leyva, monaca per forza, riaffiora dalla polvere dei secoli, al pari di una sopravvissuta, vittima esemplare di ogni sopraffazione umana. «M'hanno allontanata dal mondo, m'hanno cacciata dalla città quando la vita cominciava a sorridermi e ad aprirsi. Sono sola, Dio mio; sola su questa scena vuota, popolata di spettri»: così grida Marianna, che emerge avvolta in una candida tenda-sudario. Le dà voce Lucilla Morlacchi, protagonista assoluta di un testo che ha tenacemente voluto riportare in scena, a dimostrazione di una battaglia culturale che equivale per lei al bilancio di un'intensa carriera artistica. La monaca di Monza riaffiora, anzitutto, dalla cenere di una vicenda terribile, prima che dalle pagine dei Promessi sposi di Manzoni. Con intensità ed efficacia il volto, le braccia, le mani, il corpo dell'attrice si tendono all'inverosimile, per evocare dal nulla i principali protagonisti di uno scandalo che investe l'ambiente ecclesiastico milanese del primo Seicento.

Il lavoro di Testori, che trae spunto anche dagli atti processuali, si presenta come una partitura alterna, che passa dallo stile del drammone ottocentesco al tormento religioso interiore di uno scrittore per il quale il verbo lotta senza tregua contro la carne. Già nel 1967 Luchino Visconti, che lo realizzò al Piccolo Teatro di Milano, era intervenuto sulle lungaggini del copione, suscitando la contrarietà dell’autore; adesso il regista Elio De Capitani e Lucilla Morlacchi non hanno esitato ad operare tagli significativi, che costituiscono di fatto un tracciato drammaturgico alternativo al travagliato proposito testoriano, verificato a posteriori in base all'esperienza della stessa attrice, che oltretutto ha recitato nell'Arialda diretta da Visconti ed è stata la Monaca in I promessi sposa alla prova.

In una scena avvolta da drappi di colore rosso sangue, che si prolungano fino ad avvolgere la zona riservata al pubblico, tra velari da cui balzano fuori corpi decomposti e insanguinati, Marianna conduce una propria ricerca della verità, maledicendo chi l'ha generata senza amore, negando così l'atto originario di ogni concepimento; in scena si vede una madre infelice che subisce l'amplesso di un padre autoritario e prepotente, un nobile imprigionato in una vecchia armatura da battaglia: è questo l'atto che la ha generata. Il destino della bimba è segnato dalla monacazione forzata, ma tra le pareti del convento suor Virginia, il nome da monaca di Marianna, scopre l'infinita estasi della passione tra le braccia di Gian Paolo Osio, avventuriero, assassino e seduttore. La parte centrale della rappresentazione considera il catalogo delle efferatezze e degli illeciti, compiuti da nobili, preti, suore e donne di strada, e si chiude con l'arresto e la condanna dei colpevoli. Mentre Osio, dopo una fuga vana, è giustiziato e fatto a pezzi, la monaca è murata viva affinché abbia il tempo di pentirsi delle sue colpe, a cominciare dall'uccisione del figlio che portava in grembo.

L'interpretazione di Lucilla Morlacchi raggiunge un'intensità espressiva, soprattutto negli assolo, che divengono la linea segreta del testo, perché rivelano la profondità del tormento, la consapevolezza della colpa, la necessità di una ribellione totale. L'attrice pronuncia parole pesanti come pietre, ma incapaci di abbattere un corpo reso indistruttibile dal desiderio e dalla tensione verso l'amore assoluto. Nel suo grido finale emerge la coincidenza tra Testori e il personaggio di Marianna: è un'implorazione a Cristo perché liberi l'essere dalla sua carnalità, oppure perché lo anneghi nel proprio sangue.
Una qualche incertezza pesa sul disegno esecutivo, forse a causa dell'urgenza dell'esordio; sulla messa a punto del disegno complessivo pesa la difficoltà dal doppio registro di narrazione e rappresentazione. Le allusioni alle schiavitù del velo, perpetrate dagli integralismi vecchi e nuovi, e all'irrazionalità dell'amore, che giunge a giustificare ogni crudeltà, si stemperano per le disparità nella visione d'insieme. A Marco Baliani sono affidate le potenzialità di rendere un personaggio discontinuo come Osio, che richiede una molteplicità di registri e di comportamenti; altrettanto può dirsi per gli altri attori, che si suddividono l'onere di descrivere l'asfissiante vita del convento e i passaggi della cupa storia.


La monaca di Monza
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