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Un Salieri hi-tech

di Elisabetta Torselli
  Europa riconosciuta
Data di pubblicazione su web 19/12/2004  
Non sappiamo che effetto faccia ai milanesi vedere la Scala sovrastata dalle innovazioni di Mario Botta (a chi scrive sono sembrate bellissime), ossia dall'oramai famoso avveniristico "ellissoide" e dalla nuova grande torre scenica circolare, molto più alta e profonda di quella che è stata abbattuta, che contiene, come è stato detto e scritto, una delle più grandi e avanzate macchine teatrali tecnologiche del mondo, progettata dall'ingegner Franco Malgrande, con i piani che si alzano e abbassano, scorrono e ruotano, e renderanno possibile realizzare rapidissimamente i cambi di scena (giacché al piano inferiore della torre scenica, che arriva dopo i nuovi lavori a -18 metri di profondità, si può montare un nuovo set mentre sopra il sipario è aperto e la rappresentazione in corso) e soprattutto alternare agilmente più spettacoli sera dopo sera. Quanto alla sala, il restauro è stato affidato alle cure dell'architetto veneziano Elisabetta Fabbri, che aveva già lavorato alla ricostruzione della Fenice e che ha puntato a ritrovare le antiche bellezze dimenticate e nascoste: colori più freschi e delicati, più settecenteschi insomma, del classico rosso-cupo-da-teatro poi invalso; materiali come il marmorino originale in finitura a stucco lucido dei corridoi, sepolto sotto undici strati di vernici ottocentesche e novecentesche. Il nuovo parquet della sala è stato studiato dall'ingegnere acustico Higini Arau, lo stesso che si era occupato del Liceu di Barcellona: si sono rimosse le macerie del '43 e si è realizzata una pavimentazione flottante a nove strati per migliorare la resa acustica.

Ma per chi entra in sala per la prima volta l'effetto è e resta magico, quello, crediamo, di sempre, dovuto al genio architettonico di Giuseppe Piermarini: "la curva è riuscita così bene che in ogni parte che ti affacci ti sembra d'essere come al centro per rimirare il tutto insieme. Appoggiando le spalle all'orchestra, mi pare d'essere in una rotonda per l'illusione che mi fa comparire le logge non sovraimposte perpendicolarmente", così scriveva Pietro Verri al fratello Alessandro in data 5 agosto 1778 (traiamo questa e le altre citazioni dal ricchissimo programma di sala, in realtà un vero e proprio libro colmo di documentazione storica, anche relativa alla Milano di allora, e di immagini, oltre alla riproduzione del libretto originale, con i saggi di Claudio Toscani, Otto Biba, Paolo Gallarati, Raffaele Mellace, Andrea Vitalini, Mercedes Viale Ferrero, Anna Laura Bellina, Carlo Capra, e letture e apparati a cura di Francesco Degrada, Elena Biggi Parodi, Luigi Bellingardi). In questo spazio grandioso ma che ti abbraccia, sembra di essere piombati dentro un romanzo di Stendhal e persino l'espressione "tempio della lirica", che ci aveva tante volte prima d'oggi infastidito, non suona più così vana. Quanto all'acustica, non siamo in grado di fare confronti con il prima, ma certo a orecchie cresciute alla musica nell'ingrato Comunale di Firenze la resa della sala risulta semplicemente magnifica.




Corpo di ballo




Nel 1778 il nuovo Teatro alla Scala (così chiamato dalla chiesa di S. Maria della Scala che sorgeva anticamente in questo luogo) fu inaugurato con l'Europa riconosciuta di Antonio Salieri, e con la stessa opera lo si è riaperto dopo molti anni di lavori e la nota trasmigrazione agli Arcimboldi (che peraltro restano pienamente in funzione come palcoscenico alternativo). Sarebbe stato forse più nobile inaugurare con un'opera nuova commissionata per l'occasione, come lo fu nel 1778 l'opera di Salieri: d'altra parte, ciò che si è rivelato particolarmente stimolante, in questo spettacolo, è stato proprio l'adattare quell'opera-festa teatrale settecentesca al contesto nuovo di una Scala hi-tech. Nel 1778 la "spesa somma" di cui parlano le penne dell'epoca era destinata a realizzare un operone, non per lunghezza - che è anzi contenuta come si addice appunto alle "feste teatrali" - ma nelle intenzioni. Ossia, sfruttando a fini spettacolari l'idea del teatro musicale "riformato" alla Gluck, ambizioso, classicamente panneggiato in ampie scene corali ma anche con dei momenti di massa molto agiti e movimentati, adatti a mettere in luce dovizia di mezzi scenotecnici, competenze, dispendio e sfarzo; una grandiosa tempesta iniziale come nell'Ifigenia in Tauride di Gluck e nell'Idomeneo di Mozart (che sono rispettivamente del 1779 e del 1781); un importante intermezzo di danze, la cui composizione, diversamente dalle abitudini dell'epoca di lasciare le musiche per i balli a maestri di minor rango, fu affidata allo stesso Salieri (ma sono purtroppo perdute, e si è fatto ricorso ad una serie di danze per orchestra di Salieri conservate nella Oesterreich Nationalbibliothek di Vienna); "bande d'instromenti militari" in scena; cori ipertrofici e gran concorso di comparse, "donzelle cretensi, grandi del regno di Fenicia, soldati, cavalieri, sacerdoti di Nemesi e guerrieri", questi ultimi divisi in aggressori e assaliti per la scena dell'abbattimento per cui nel 1778 furono istruiti da un apposito maestro d'armi napoletano; le dieci sontuose mutazioni sceniche ideate da Fabrizio Galliari, alcune delle quali spettacolosamente munite di rocce, dirupi e caverne; costumi a profusione.

In questa rilettura hi-tech di Ronconi e Pizzi abbiamo di tutto ciò la versione stilizzata e raffreddata ma non per questo, diremmo, meno affascinante. Ruota lentamente anziché flottare l'austera nave tecno-minoica, i cavalieri montano assai ronconiani finti cavalli, si alza e si abbassa il palcoscenico nuovo - l'effetto è realmente sorprendente - e ci mostra il coro inscatolato nel suo luogo deputato tecnologico, non mancano i consueti cipressi di Ronconi (a Firenze li ricordiamo bene nella trilogia monteverdiana) né le travature metalliche a vista, gli elmi delle guardie di Egisto accennano vagamente ad un Impero del Male in stile Guerre Stellari, Egisto ha un magnifico costume svolazzante e pipistrellesco da malvagio di una saga fantascientifica. Nel finale, Ronconi fa calare in palcoscenico le vecchie poltrone del teatro tante volte occupate dagli aficionados (in teatro ci sono quelle nuove), sulle quali i coristi in abito da sera intonano "A regnar su questa sede torni al fin la vera erede". Mentre le due primedonne Semele e Europa si lanciano negli ultimi arditissimi acuti imbracciando il loro gran bouquet di fiori come se l'opera fosse già finita, alle spalle uno specchio gigante riflette la sala del Piermarini illuminata. Per chi ama Ronconi lo spettacolo ha il fascino ironico ma sottilmente perturbante di sempre, in bilico fra presa di distanza ed una fredda, controllata ma profonda estaticità; teatro da vedere e da celebrare, questa Scala nuova, più che mai.

 

Europa riconosciuta


E Salieri come ne esce? inchiodato definitivamente allo stereotipo di compositore accorto, preparato, aggiornato e per molti aspetti persino à la page, ma irrimediabilmente senza genio? oppure risollevato ad una nuova considerazione critica? (quanto agli aspetti umani e caratteriali, al di là delle leggende ottocentesche sul musicista intrigante e addirittura sul presunto avvelenatore di Mozart, ci sembra oramai appurato che invece Antonio Salieri era una brava persona: il saggio di Otto Biba nel programma di sala lo documenta ampiamente). Non ci sentiamo di dare una risposta. Salieri aveva qui per le mani il rigido e anaffettivo libretto di un poeta teatrale di impronta gluckiana-riformata, il romano Mattia Verazi, già autore di testi per Jommelli, Traetta, De Majo, Sacchini, Johann Christian Bach. Con tutte le sue ambizioni e dichiarazioni di coraggio espresse anche nella prefazione al libretto, in cui si dichiara intezionato a variare e modernizzare "gli eruditi piaceri e divertimenti" dell'opera, a giudicare dal testo dell'Europa riconosciuta Verazi sembra proprio una delle famose "mutrie riformate" delle polemiche settecentesche sul melodramma. Se persino oggi siamo indotti da Verazi a rimpiangere le tenere e calde modulazioni d'affetti di una Didone abbandonata, di un Siroe e di un'Olimpiade, figuriamoci uno spettatore e ascoltatore del Settecento! E infatti anche Alessandro Verri, leggiamo in una sua lettera al fratello in cui ragiona ancora dell'Europa riconosciuta, confessa di rimpiangere di cuore il "superato" Metastasio, e conclude non senza ragione che "infine il tutto si riduce ad una lanterna magica, e vorrei che vi fosse anche nello strepito teatrale qualche passione". Certo Salieri non si lasciò spaventare dagli impegni dell'"opera riformata" (almeno rifarmata nell'apparenza, come ci sembra il caso dell'Europa riconosciuta), di cui anzi sarebbe divenuto in seguito uno degli esponenti più segnalati - e proprio sulla non facile scena della tragédie lyrique "riformata" e post-gluckiana parigina - con Les Danaides (1784) e con Tarare (1787, su testo di Beaumarchais); ma sempre intercalando a questo interesse alcun felici ritorni al genere buffo in cui aveva fatto il suo apprendistato d'operista a Vienna, come La grotta di Trofonio e il delizioso Prima la musica poi le parole, ambedue su testi dell'abate Casti.

Con molta buona volontà, Salieri asseconda la mobilità e il drammatismo accentuato del libretto, con morfologie originali di arie e duetti di peregrina struttura e variazioni d'andamento, con robusto tratteggio dei cori, con ambiziosa ricchezza sinfonica negli squarci orchestrali come la tempesta iniziale (il che, povero Salieri, non fa che richiamarci alla mente la bellezza della musica della tempesta dell'Idomeneo): ma questa tinta peculiare della sublimità e terribilità di conio gluckiano, che Mozart maneggerà genialmente di lì a pochi anni appunto nell'Idomeneo, per Salieri è per ora, nell'Europa riconosciuta, più una petizione di principio, un'intenzione, che una reale e profonda corda espressiva: l'invenzione è ancora di troppo corto respiro, e, purtroppo, sempre ben studiata ma mai memorabile. Preferiamo un altro Salieri più felice e amabile, più scaltro e dimesso, che non mostra i muscoli musicali; il Salieri che verrà nuovamente fuori al tramonto della sua vicenda creativa con quello che forse è il suo vero capolavoro, il Falstaff del 1799 (ne fu realizzata qualche anno fa a Firenze una versione con il pianoforte, domestica ma molto piacevole, in un saggio di arte scenica della Scuola di Musica di Fiesole; la perla è La stessa, la stessissima, il duetto Meg - Alice che confrontano le lettere ricevute da Falstaff; Beethoven, che fu, com'è noto, allievo anche di Salieri, prese La stessa, la stessissima come tema di variazioni pianistiche). Di questo Salieri se ne ha anche qui l'intuizione qua e là, soprattutto nelle musiche per i balli (ad esempio un minuetto-musette dall'ambigua grazia che richiama le pastorellerie di Maria Antonietta), ma, come si è detto, non erano queste le musiche da ballo originali dell'Europa riconosciuta.

Salieri del resto sa che quel che ci si aspetta da lui è una festa teatrale; di conio "moderno" e molto agito scenicamente, certo (non sul tipo delle feste teatrali metastasiane), ma festa comunque; e festa, all'opera, significa soprattutto una pirotecnica esibizione di vocalità, quella che si evidenzia in particolare nei ruoli di Europa e Semele, per cui furono allora ingaggiate due primedonne come Maria Balducci e Fransziska Danzi Lebrun, in un'autentica gara spinta dai centri sostanziosi fino ad astrali sovracuti (si arriva al fa diesis, e sottolineiamo fa diesis ossia uno scalino sopra le puntate verso l'acuto dell'aria della Regina della Notte nel Flauto magico) e a spericolate volatine in agilità in arie come "Ah, lo sento, il suo tormento" e "Quanto più irato freme", mentre una vocalità più morbida e "naturale" ma sempre di grande spessore tecnico è assegnata ai due ruoli di Asterio e Isseo confezionati da Salieri sui due prodigiosi castrati Gasparo Pacchiarotti e Giovanni Rubinelli; ma di grande interesse è anche il ruolo tenorile di Egisto, ancora legato ad una tradizione settecentesca per cui nell'opera seria il tenore è "l'antagonista" (come Bajazet nel Tamerlano di Haendel e, se si vuole, anche Idomeneo nell'opera mozartiana eponima), ma che qui, tra voli belcantistici e insinuanti mezze frasi, sembra prendere un'originale qualità di malvagio senz'altro e vilain.

Riccardo Muti ha diretto in maniera perfetta e con intimo calore una partitura in cui evidentemente crede a fondo, anche perché ben si attaglia alle sue corde di grande interprete da sempre del repertorio della grande arcata neoclassica, da Gluck a Cherubini, a cui questa musica appartiene o vorrebbe appartenere; sottolineandone i caratteri più drammatici ma senza sacrificio di altri, dalla smagliante vocalità alla grazia squisita delle danze. Lo asseconda un cast di prim'ordine in cui i ruoli virtuosistici di Europa e Semele sono affidati alla bravura di Diana Damrau e della strepitosa Désirée Rancatore, Asterio e Isseo sono Genia
Kühmeier dalla bellissima voce e la sempre autorevole e interessante Daniela Barcellona; ma molto ci è piaciuto anche Giuseppe Sabbatini che ha tratteggiato il cattivo, Egisto, con la consueta miscela di signorilità e incisiva presenza scenica. Le belle coreografie di Heinz Spörli si ispiravano con gusto e fantasia ad una concezione di danza settecentesca pre-romantica, agile e anche atletica ma "bassa" senza lo star sulle punte, idealmente, crediamo, fra Gasparo Angiolini (il coreografo di Gluck) e i "coreodrammi" neoclassici di Salvatore Viganò; impeccabilmente eseguite dal corpo di ballo scaligero hanno avuto come étoiles Elisabetta Armiato e Alessandro Grillo. Successo e pubblico quasi incredibili per la sesta recita di un'opera settecentesca pressoché sconosciuta, giustificabili con il carisma dell'applauditissimo Muti e con la voglia di tornare finalmente nel teatro del Piermarini. La recita di cui riferiamo era stata aperta da Muti con una sobria ma toccante commemorazione di Renata Tebaldi, morta senza aver potuto rivedere la sua Scala come aveva sperato fino all'ultimo.



Europa riconosciuta
dramma per musica in due atti


cast cast & credits
 
trama trama

 Foto:
Silvia Lelli-
Teatro alla Scala 



il libretto in rete
 





Diana Damrau
Diana Damrau




 

Europa riconosciuta


 
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