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E la nave va... a fondo

di Federico Pierotti
  Un'immagine del film
Data di pubblicazione su web 14/05/2004  
Ne La divina commedia, Manoel de Oliveira ci introduceva in un manicomio che aveva tra i suoi internati Adamo ed Eva, Aliosha e Ivan Karamazov, Rasknolnikov e Sonia, Gesù e Lazzaro, Nietzsche e un non meglio precisato Profeta, allineando una serie di episodi legati al peccato e alla salvezza dell'umanità, dalla cacciata dal Paradiso Terrestre in avanti. Un film parlato è molto prossimo alla pellicola realizzata ormai più di dieci anni fa. Al posto del manicomio troviamo una lussuosa nave da crociera che conduce in giro per il Mediterraneo una giovane professoressa universitaria di storia accompagnata dalla figlia (Leonor Silveira e Filipa De Almeida); al suo interno spiccano, in luogo dei pazzi, quattro importanti personaggi di differente nazionalità: una manager francese di successo (Catherine Deneuve), una celebre modella italiana (Stefania Sandrelli), un'attrice e cantante greca (Irene Papas) e il comandante, un americano di origini polacche, nel ruolo di maestro di cerimonie (John Malkovich). Ciò che accomuna i due film è la riproposizione di una teoria di communes loci della cultura occidentale: la rivisitazione dei passi biblici e letterari ne La divina commedia e, in Un film parlato, la visita alle città che hanno accolto le diverse tappe dello sviluppo della civilizzazione nel Mediterraneo: Lisbona, Ceuta, Marsiglia, Napoli, Pompei, Atene, Istanbul, Il Cairo.

Ma fino a che punto va presa sul serio questa operazione? Davvero Manoel de Oliveira, il decano dei cineasti europei, si è messo in testa di proporci la sua lezione di storia sulla civiltà occidentale? Non è facile dare una risposta, certo è che il film sembra reggersi su un continuo andirivieni tra la costruzione di una metafora (le navi sono utili alla bisogna, come insegna Fellini) e la sua parallela messa in discussione. La nave da crociera è una sorta di Arca di Noè in cui è stivata tutta la cultura dell'Occidente, dalle sue origini (la Grecia, culla della filosofia, del teatro e della democrazia) all'epoca attuale (l'Europa Unita, poliglotta, a banchettare e brindare assieme all'amico americano, che conduce le operazioni). Si tratta di un'Arca di Noè incapace di portare in salvo i suoi passeggeri, sul punto di andare a fondo, minacciata delle bombe dei terroristi, che mettono a rischio il perpetuarsi della linea delle generazioni (alla fine, restano a bordo tre figure femminili: la madre, la figlia, la bambola).


Un'immagine del film

 
Ma una simile lettura metaforica rischia di non tener conto dell'atteggiamento ambiguo del film nei confronti del suo oggetto principale, la cultura e i discorsi che essa produce. Un film parlato è pieno di momenti di silenziosa ambiguità. Prendiamo la prima immagine del film: siamo al porto di Lisbona, un gruppetto di persone sventola allegramente i fazzoletti bianchi per salutare gli amici e i parenti in partenza per la crociera. È un'immagine fissa e persistente, su cui scorrono i titoli di testa; a prima vista può sembrare una concessione ad uno dei più vieti stereotipi delle scene di partenza, in realtà ci pare un invito a riflettere sulla distanza che ci separa da quanto viene mostrato. Impressione rafforzata dalle riprese successive, che mostrano due vedute del Monumento delle Scoperte e della Torre di Belém, ovvero, quanto di più turistico e cartolinesco la capitale portoghese abbia da offrire.

Tutta la prima parte di Un film parlato sembra un catalogo di vedute così come avrebbe potuto realizzarlo un operatore mandato in giro per il Mediterraneo dai fratelli Lumière negli ultimi anni dell'Ottocento. Il film adotta un campionario limitato di parametri formali, e per ognuna delle città visitate ripete immagini simili: la passerella, la prua che solca le acque, la veduta dei monumenti, la veduta panoramica della città, eccetera. L'immagine non solo riacquista le modalità rappresentative del cinema delle origini (fissità della macchina da presa, che si muove solo quando è posta su un oggetto in movimento, come la nave), ma cerca di recuperarne anche lo statuto di attrazione, che per noi non ha, né può più avere, alcun significato. La bambina, al contrario, portatrice di uno sguardo che precede i condizionamenti culturali, può osservare le cose che si trova davanti con un atteggiamento pieno di stupore, come lo spettatore delle origini di fronte alle immagini del cinematografo. Sono immagini che noi, invece, spettatori occidentali mediamente acculturati, abbiamo visto decine e decine di volte, dal vivo, in cartolina, al cinema, in televisione, oppure sfogliando le guide turistiche vendute insieme ai settimanali di attualità.


Un'immagine del film

 
La relazione docente-discente che si instaura tra la madre e la figlia non è la stessa in cui si trova lo spettatore, che ha studiato la Storia e, a differenza della bambina, ha acquisito gli strumenti concettuali per comprenderne gli eventi. Noi sappiamo che cos'è un mito, che cos'è una leggenda, che cosa vuol dire civilizzazione, eppure Oliveira ci costringe ad ascoltare le elementari spiegazioni della madre. Tuttavia, mentre le intenzioni pedagogiche della madre-professoressa sono chiare, sarebbe un errore traslare le stesse intenzioni all'intero film: nonostante faccia finta di volerlo fare, il maestro Oliveira non intende proporci la sua lezione di storia. Dietro alle cose mostrate e alle parole dette si cela, ci pare, l'invito a guardare "tra" queste cose - per riprendere la celebre formula di Pierrot le fou - per coglierne connessioni e stratificazioni. La visita alle città assume la forma che già aveva in Lisbona capitale culturale, in cui l'oggetto-monumento veniva occultato dai discorsi ufficiali; anche qui c'è sempre qualcuno a "parlare sopra" le cose mostrate: la professoressa, le guide turistiche, il prete ortodosso, l'attore portoghese. Sotto questo livello per così dire "pedagogico" del discorso (il film parlato) ne scorre un altro, che potremmo definire, un po' per gioco, il film muto, il film delle vedute, il film della rimessa in discussione della cultura e dei suoi discorsi.

Non è tanto il carattere ostensivo o attrazionale della veduta a interessare Oliveira, quanto la veduta in sé, in quanto manifestazione "eversiva" dello sguardo, che costringe a interrogarsi sullo statuto, sulla complessità, sul valore di verità di quanto viene mostrato. In questa prospettiva, tutte le immagini del film assomigliano al dépliant di Pompei mostrato dalla professoressa alla figlia, in cui sovrapponendo alla foto un foglio trasparente le rovine si integrano nella ricostruzione virtuale della città antica. Le immagini della città contengono una pluralità di strati che rivelano, al fondo, il carattere intimamente dialettico della cultura, vero e proprio campo di possibilità costituito da tracce materiali e immateriali, visibili e invisibili, reali e virtuali, passate e presenti.

La legge che governa la Storia, sembra suggerire Oliveira, è un moto perpetuo che ci trascina ma che non siamo capaci di controllare. Per questo, l'immagine più densa del film ci sembra quella del cagnolino ormeggiato alla barca di un pescatore, sempre sul punto di essere trascinato in acqua dai capricci delle onde; una bella invenzione visiva per suggerire l'idea di precarietà che caratterizza ogni civiltà e, forse, anche ogni costruzione metaforica.


Un film parlato
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