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La riscoperta leggerezza di Wagner

di Elisabetta Torselli
  I maestri cantori di Norimberga
Data di pubblicazione su web 02/05/2004  
È penoso, per una partitura splendida come I maestri cantori di Norimberga, doversi portare addosso il pesante bagaglio di filosofia dell'arte e, a maggior ragione, di nazionalismo artistico che si esprime nella finale perorazione del protagonista, Hans Sachs, per la "sacra arte tedesca" da salvaguardare dal "fumo latino con latina frivolezza". È il lato oscuro dei Maestri Cantori; è la vendetta di Wagner contro Parigi, che qualche anno prima gli aveva fischiato il Tannhäuser e che di lì a poco la Germania avrebbe schiacciato così brutalmente nella guerra franco-prussiana (come se non fosse stata proprio l'intellettualità francese a creare il "caso Wagner" e a formulare a beneficio di un'intera generazione della cultura europea i temi chiave del wagnerismo).

Tuttavia, smentendo la filosofia wagneriana del 'Dramma' con la maiuscola, è la musica quello che ascoltiamo, la musica di Wagner ciò di cui non possiamo fare a meno e delle cui azioni misteriose le figure che si muovono in scena (beh, si muovono... si fa per dire) sono funzioni, riflessi, simboli (però in questo i Maestri Cantori, almeno nelle scene comiche, sono una felice eccezione). Per Wagner teorico e chiosatore del simbolismo dei suoi stessi personaggi, il mero musicista, colui che afferma il primato della musica (Beckmesser: "Amico Sachs, voi siete buon poeta, ma quanto a tono e aria, ammettetelo, nessuno mi supera"), è un musicante, mentre il vero musicista è poeta.
 


I maestri cantori di Norimberga



 
Oggi, al contrario, ci chiediamo che fine avrebbero fatto la visione wagneriana del mondo, della poesia, del dramma (sono pochi i personaggi 'veri' inventati da Wagner, dramatis personae e non vuoti simboli, Wothan e Siegmund nell'Anello, Ortruda nel Lohengrin, e, paradossalmente, proprio Beckmesser), i testi di Wagner con i loro stravaganti deliri allitterativi, la sua più che velleitaria drammaturgia, se non ci fosse la sua musica. Anzi, non ce lo chiediamo: lo sappiamo benissimo. Sappiamo benissimo, per esempio, cosa ci inchioda alla poltrona, noialtri wagneriani impenitenti, in capo a cinque ore di musica più gli intervalli del Crepuscolo degli Dei: non certo Brunilde e Sigfrido, il cui interesse è zero e la cui stentorea e poco seducente vocalità a quel punto ci avrebbe già stufato da un pezzo, se non fosse per la prospettiva di ascoltare l'orchestra in quel finale, in quella tragica eppure luminosa, titanica eppure struggente super-ricapitolazione dei motivi conduttori dell'Anello, fino al trionfo del motivo della Redenzione in una sorta di appagato sfinimento (si sarà capito che stiamo già pregustando la nuova Tetralogia fiorentina che Zubin Mehta da tempo promette dopo quella oramai leggendaria con Ronconi e Pizzi di oltre vent'anni fa, e che, a quanto pare, si farà al Maggio 2009).

Si replicherà che Wagner sa scrivere una musica di tale temperatura visionaria perché nei suoi miti e nelle sue visioni ci crede profondamente: cigni-barchetta, ondine sommozzatrici, draghi, cavalcate nei cieli, Walhalla in fiamme, mistici Gral portati in volo da stuoli d'angeli e persino, cosa ancora più improbabile, popoli cresimati dalla Poesia. Sia pure: come affermava Teodoro Celli, Wagner è un grande mitopoieta. Ma ciò non ci obbliga a condividere di Wagner qualcosa che non sia la sua musica, perché è nella musica che si riversa la sua mitopoiesi, la sua forza di creatore. Benché si possa restare ammirati dai raffinati esercizi eruditi con cui ancora oggi si tenta di dimostrare che tutto questo non è affatto imbarazzante, sarà il caso di smettere finalmente di affannarsi a difendere, di Wagner, qualcosa che non sia la sua musica (soprattutto, non affrettiamoci a dar di cretino, come fa Quirino Principe nel saggio che figura nelle note di sala del programma dello spettacolo di cui riferiamo, a chi avanza obiezioni contro il "Wagner-pensiero").
 

I maestri cantori di Norimberga

 


I Maestri Cantori sono l'altra faccia del Tristano. Entrambe le opere furono scritte a distanza ravvicinata e rappresentano quasi una digressione più che decennale dai percorsi wagneriani principali, ossia dal ciclo dell'Anello, evento centrale ma a sua volta iscritto all'interno della più ampia arcata Lohengrin-Parsifal. Ma fra Tristano e Maestri Cantori è ben difficile decidere oggi quale sia la faccia più importante, testa o croce, recto o verso, commedia o dramma: il diatonismo dei Maestri rispetto al cromatismo del Tristano, il ritorno ad una drammaturgia musicale in parte di concezione tradizionale, ossia antinaturalistica e astratta - ci sono infatti funzioni proprie ed esclusive della drammaturgia musicale classica, pezzi d'assieme quali il magnifico quintetto del terzo atto, un tipico finale concertato per il secondo atto come nelle Nozze di Figaro e nel Barbiere di Siviglia - rispetto all'azione musicale distesa del Tristano.

Per il wagneriano vecchio stile ciò era forse da leggersi all'interno di un processo organico di cui Tristano e poi Parsifal erano lo sbocco evolutivo più alto, rispetto a cui i Maestri Cantori costituivano una pausa di assenza di tormento, di riposo, di serenità, forse di restaurazione. Ma è da molto che si è imparato a diffidare di una visione evoluzionistica di questo tipo. E dunque questo culmine artistico wagneriano potrebbe risiedere proprio nei Maestri Cantori..., perché no? Sembrerà proposizione eretica, ma non significa altro che far nostro un parere assai autorevole come quello di Johannes Brahms, che i Maestri Cantori li amò anche se nella figura di Beckmesser Wagner aveva inteso mettere in ridicolo il classicismo conservatore - dal suo punto di vista, s'intende - del capo della falange brahmsiana, il critico Eduard Hanslick.


Ma anche per questo unico magnifico exploit comico wagneriano, che potremmo considerare del tutto a sé, è Wagner a suggerirci che esso sta dentro un percorso che viene richiamato, citato, parodizzato: l'Autore - come categoria che sta anche al di sopra delle opere e non solo dentro di esse - è comunque e acutamente presente a se stesso. Più che nel riprendere in chiave borghese anziché cortese-cavalleresca la situazione di partenza della gara di canto già proposta nel Tannhäuser, più che nell'autocitazione musicale del coevo Tristano (quando nel terzo atto Sachs afferma di conoscere la triste storia di Tristano e Isotta e di non voler condividere la sorte del signor Marke), ciò avviene in altre e più divertenti modalità wagneriane di rovesciamento e parodia dei propri miti: Sachs che canta a squarciagola in faccia a Beckmesser e martella a tutto spiano sul suo piccolo desco di calzolaio è il rovescio comico di Sigfrido che cantando forgia Nothung sull'incudine di fronte all'allibito Mime (terminati i Maestri Cantori, nel 1869, Wagner si rimette a lavorare dopo un intervallo di dodici anni proprio allo schizzo orchestrale del terzo episodio dell'Anello, poi rappresentato nel 1876 a Bayreuth con l'intera Tetralogia; quanto al testo, anzi, per dirla alla Wagner, "poema" del Siegfrid, era stato scritto molto prima, nel 1851-'52).
 

I maestri cantori di Norimberga

 


A proposito di rovesciamenti comici, e tornando con il pensiero al famoso saggio di Bachtin su Rabelais, si rimane colpiti da come Wagner abbia trasfuso nel giustamente celebre, splendido Finale del secondo atto qualcosa di rabelaisiano, uno spirito da charivari, da enorme, immotivata, gagliarda zuffa apotropaica. Prima della 'Grande Germania' infatti ci sono le sue mille città, e questo sì, che è interessante: questo sguardo affettuoso e questa riflessione, dal proprio essere Autore, su un'arte europea "primitiva", un'arte cittadina, borghese, popolare, in un certo senso anonima, quella in cui non c'è l'Autore perché ci sono le "Tavolature", in cui l'autore, se si dichiara, non ha la maiuscola, perché fa corpo con la società che lo esprime anziché separarsi da essa, perché applica tecniche compositive fisse e oggettivate a motivi e materiali altrettanto fissi e oggettivati (il che storicamente non impediva affatto di inventare e sperimentare, in uno spirito artigianale piuttosto che autoriale: in ambito teatrale, è il mondo delle confraternite, delle corporazioni, delle gilde che in Europa inscenavano i Misteri, i Miracoli, i Morality-plays, le sacre rappresentazioni, come a dire il terreno da cui qualche generazione dopo fioriranno Shakespeare e Lope de Vega). Si trattava di materiali anonimi, come quel Ton autentico dei 'Meistersinger' veri e storici, elaborazione di un'intonazione in tono festivo del quinto tono, che troviamo ad un dipresso e con varie metamorfosi in moltissime fonti medievali (dal Laudario da Cortona ai trovatori) prima di diventare uno dei motivi conduttori più memorabili di quest'opera.

Un'adolescenza vitalissima dell'arte grande, che per Wagner peraltro non può che essere arte dell'Autore, anche se pare volersi qui appoggiare su una vaga democrazia estetica quando Sachs chiede che sia il popolo a decidere la gara di poesia (e noi diciamo "noooo...", visto che oggi "il popolo" decide a favore dei reality show). Attraverso la mediazione di Sachs tra le posizioni opposte dei Maestri e di Walther, la tradizione, la regola compositiva, non viene né salvaguardata come un'ortodossia intoccabile né respinta in blocco, ma 'rimotivata': è quanto fa Sachs quando guida Walther alla composizione di un canto in impeccabile Barform distinto in due strofe ed epodo, Stollen e Abgesang. E lo stesso fa Wagner, in un certo senso, nei Maestri Cantori, riagganciando la composizione a saldi percorsi tonali e riprendendo formule convenzionali di drammaturgia musicale come il concertato, già da lui condannate.

Insomma, da un lato abbiamo con Walther l'orgogliosa libertà dell'Autore, dall'altro le "Tavolature", ma, con Sachs, il riconoscimento di una sorta di oggettivazione della forma e della composizione come qualcosa che sta fra i materiali e motivi da un lato e l'Autore dall'altro. Questo contrasta singolarmente con la filosofia di Wagner ma esprime la sostanza e la verità della sua musica: ciò che vuol apparire un magma, un lirico e rapsodico espandersi, non sarebbe possibile senza l'equilibro di altezza visionaria e di molta dottrina musicale che permette l'intreccio vertiginoso e le caleidoscopiche continue metamorfosi che costituiscono il fascino della musica di Wagner. Questo magma, insomma, è perfettamente organizzato, in verticale e in orizzontale, in armonia e in contrappunto (e ricordiamo qui di scorcio un altro Maestro Cantore, non di Norimberga ma di Lipsia, Theodor Weinlig, per breve tempo insegnante di composizione del giovane Wagner, Thomaskantor, ossia erede dell'ufficio di direttore della scuola musicale di San Tomaso come un secolo prima era stato Johann Sebastian Bach).

Risentire e rivedere questo Wagner per una volta benedetto dallo spirito della Commedia, come accadrà poi a Verdi con Falstaff, è sempre una sorpresa straordinaria per il pubblico. È difficile riandare con la memoria ad un successo wagneriano così caldo e trionfale come quello toccato in capo a sei ore di spettacolo a questi Maestri Cantori inaugurali del sessantasettesimo Maggio Musicale Fiorentino. La riuscita felice dello spettacolo ci insegna quanto è importante ciò che oggi succede così di rado: che podio e regia si accordino sulla stessa tonalità. È quanto è successo stavolta con Zubin Mehta e Graham Vick, in una chiave di festosa leggerezza e di commedia, come Zubin Mehta aveva preannunciato promettendoci una sorta di "Falstaff di Wagner". Promessa mantenuta non certo alleggerendo le sonorità, che fin dalla celeberrima ouverture risultavano robuste come sempre, ma riuscendo, lui e l'ottima orchestra del Maggio, a mantenerle sempre luminose, fresche, guizzanti e capaci di assottigliarsi rapidamente anche in capo a cinque ore di musica, con esemplare chiarezza di delineazione degli intrecci orchestrali fra i vari motivi conduttori, senza l'ombra dello sfinimento che così spesso opacizza, spompa, ingrossa i contorni di tanti finali wagneriani.

Insomma, questo "macigno-Wagner" l'orchestra del Maggio riesce benissimo a sollevarlo. Lo spirito della commedia aleggiava dal podio nella calibratura agile e ariosa dell'epopea borghese comica dei Cantori e dei dialoghi fra Hans Sachs e Sixtus Beckmesser, ma senza dimenticare una poesia più intima e difficile, come nel malinconico preludio del terzo atto.
Graham Vick, riprendendo un suo spettacolo per il Covent Garden di qualche anno fa (che in Italia era già stato proposto a Torino) con le scene e costumi di Richard Hudson, ne ha riproposto l'impostazione senza provocazioni ma pulita, fluida e piacevole, citando nel primo atto ambientazioni, tagli di luce e composizioni di certa pittura romantica come quella dei Nazareni, o proponendo (molto meglio) una divertente Norimberga in miniatura, con palazzi e cattedrali quasi case di bambola: straordinariamente felice e capricciosa la celebre rissa notturna del secondo atto, contenuta in una sorta di parallelepipedo gremito fino all'inverosimile da una folla che sbuca sgambettando da uscioli e finestrelle persino dal cielo della scena, come nei quadri di Bosch si vedono uscire gambe umane dalla testa di mostri fantastici.

La stessa chiave non di austerità luterana ma di allegria da kermesse fiamminga la si ritrova nel turbinio dei colori e delle fogge della scena finale della festa. Molto azzeccata la trasformazione a vista della casa di Sachs a prato della festa, con gli onnipresenti apprendisti che spostano mobilia e panche e poi si infilano le scarpe che il buon poeta calzolaio ha preparato per tutta Norimberga. Gradevoli anche i movimenti coreografici delle danze di borghesi e paesani, prima dell'ingresso dei Maestri Cantori, disegnati da Ron Howell.

Insomma, bello spettacolo, bella musica: ma mentre Mehta si gode a fondo la partitura e noi con lui, sulla scena voci wagneriane non proprio titaniche fanno un po' di fatica. E così la classe di questo cast (giacché sappiamo trattarsi di cantanti che cantano Wagner nelle sue sedi deputate, come Bayreuth e Monaco) è valutabile soprattutto là dove Mehta ha potuto imprimere il suo segno, nella cura degli insiemi e degli equilibri, come nel quintetto del terzo atto, sospeso in un'atmosfera soave e sognante. Ma le voci sono quelle che sono, e non resta che concludere che mettere su un cast wagneriano presenta oggi molti problemi.

Aspettando tempi migliori, citiamo comunque Franz Hawlata (Hans Sachs), Emily Magee (Eva), Robert Dean Smith (Walther) e Dietrich Henschel (Beckmesser). Segnaliamo senz'altro l'ottimo e simpatico David di Joerg Schneider, il migliore, il valido Veit Pogner di Reinhard Dorn, la Magdalene di Hermine May, apprezzando l'ottima prestazione del coro anche nei momenti più spinosi e la sua versatilità nella partecipazione alle scene di massa e persino alle danze. Da sottolineare, come un successo dell'internazionalismo musicale, alla faccia del nazionalismo wagneriano, è la presenza di tanti cantanti italiani nel folto stuolo dei Maestri Cantori (Luciano De Pasquale, Maurizio Muraro, Carlo Bosi, Enrico Cossutta, Enrico Facini, Danilo Serraiocco, Luigi Roni, Antonio De Gobbi, a cui si aggiungeva Valter Borin, Vogelgesang) e nella parte piccola ma preziosa del Guardiano Notturno (Giovanni Battista Parodi).

I maestri cantori di Norimberga
opera in tre atti


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I maestri cantori di Norimberga
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Richard Wagner




 



 
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