Mostra senza spettacolo
A Mantova, nella cornice prestigiosa di Palazzo Te, c'è un'altra mostra che ha - come si suole dire - "fatto spettacolo", dedicata alla Celeste Galleria dei Gonzaga. Un successo di comunicazione e commerciale indubitabile: alto numero di visitatori, prolungamento dell'apertura al 12 gennaio 2003, incassi consistenti che pare abbiano ripianato i debiti del Palazzo mantovano. Una raccolta encomiabile di opere convocate dalle quattro parti del mondo a restaurare, almeno in parte, un gusto e un collezionismo ambiziosi. Un allestimento discutibile: solo "ragioni di bottega" possono avere giustificato la collocazione dei quadri e degli oggetti in uno spazio angusto e asfissiante, un'alternanza di buio e cattiva illuminazione, in una ressa da stadio di C2, invece che nelle più opportune e storicamente confacenti sale del palazzo Ducale, laddove la collezione di quadri ebbe la sua nascita e il suo sviluppo (pare messo in castigo, tra l'altro, un San Girolamo penitente di Tiziano piazzato in tralice in un loculo di dubbio gusto al centro del percorso).
Domenichino, Rinaldo e Armida - Parigi, Louvre
Ma per tornare alle questioni sollevate da Maria Ines Aliverti quel che lascia sconcertato il visitatore che abbia qualche nozione di storia dello spettacolo (senza essere un professore) è la sbadataggine, direi quasi l'inavvertenza, con cui la componente spettacolare del collezionismo gonzaghesco è trattata. Un'amnesia premeditata se si pensa che non poche delle opere esposte già avevano visto la luce dei riflettori di altre mostre mantovane. E' imperdonabile (basta ripercorrere i contenuti del catalogo della mostra dedicata da Eduard Safarik al grandissimo Domenico Fetti nel 1996) dimenticarsi che almeno dal duca Vincenzo allo scardinalato Ferdinando, cioè per circa un trentennio a cavallo tra Cinque e Seicento, alla base di soggetti e impaginazioni figurative, grandi e piccole, ci fu una società dello spettacolo (teatrale e musicale, professionale e cortigiana) che - secondo quanto insegnano molti studi dedicati alle fonti iconografiche, archivistiche e letterarie mantovane (Gallico, Burattelli, Fenlon, Besutti e altri) - dettò i modi della percezione a molti artisti, oltre a fornire modelli e modelle per le fisionomie pittoriche, situazioni sceniche e drammaturgiche, un modo particolare di concepire lo spazio.
Lo stesso patronage pittorico è inseparabile dal mecenatismo spettacolare, così come l'arte pittorica di Anton Maria Viani è incomprensibile senza un adeguato riferimento alla sua opera di architetto e scenografo-apparatore teatrale. La mediocre presenza in mostra di qualche reperto musicologico, piazzato senza adeguata contestualizzazione in alcune vetrinette, è la classica pezza che vorrebbe tappare un buco e invece ne evidenzia l'ampiezza, inferiore tuttavia all'ignoranza della relativa bibliografia che purtroppo traspare in quasi tutti gli interventi.
Domenichino, Rinaldo e Armida - Parigi, Louvre
Ma per tornare alle questioni sollevate da Maria Ines Aliverti quel che lascia sconcertato il visitatore che abbia qualche nozione di storia dello spettacolo (senza essere un professore) è la sbadataggine, direi quasi l'inavvertenza, con cui la componente spettacolare del collezionismo gonzaghesco è trattata. Un'amnesia premeditata se si pensa che non poche delle opere esposte già avevano visto la luce dei riflettori di altre mostre mantovane. E' imperdonabile (basta ripercorrere i contenuti del catalogo della mostra dedicata da Eduard Safarik al grandissimo Domenico Fetti nel 1996) dimenticarsi che almeno dal duca Vincenzo allo scardinalato Ferdinando, cioè per circa un trentennio a cavallo tra Cinque e Seicento, alla base di soggetti e impaginazioni figurative, grandi e piccole, ci fu una società dello spettacolo (teatrale e musicale, professionale e cortigiana) che - secondo quanto insegnano molti studi dedicati alle fonti iconografiche, archivistiche e letterarie mantovane (Gallico, Burattelli, Fenlon, Besutti e altri) - dettò i modi della percezione a molti artisti, oltre a fornire modelli e modelle per le fisionomie pittoriche, situazioni sceniche e drammaturgiche, un modo particolare di concepire lo spazio.
Lo stesso patronage pittorico è inseparabile dal mecenatismo spettacolare, così come l'arte pittorica di Anton Maria Viani è incomprensibile senza un adeguato riferimento alla sua opera di architetto e scenografo-apparatore teatrale. La mediocre presenza in mostra di qualche reperto musicologico, piazzato senza adeguata contestualizzazione in alcune vetrinette, è la classica pezza che vorrebbe tappare un buco e invece ne evidenzia l'ampiezza, inferiore tuttavia all'ignoranza della relativa bibliografia che purtroppo traspare in quasi tutti gli interventi.
Domenico Fetti, David con la testa di Golia