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Bassa fedeltà

di Cristina Jandelli
 
Data di pubblicazione su web 15/06/2001  
I recenti The Contenders di Daniel Minahan e The Center of the World di Wayne Wang sono stati girati in video digitale ad alta definizione, montati in Avid e poi riversati in pellicola. Il primo è meno debitore delle fortune del reality show che della riflessione cine-televisiva inaugurata da Peter Weir con The Truman Show, mentre il secondo - all'ultima moda festivaliera - costringe a spiare l'intimità di coppia dalla prospettiva del giochetto intellettuale spinto (garantito dalla presenza dello sceneggiatore Paul Auster) con cui si rilegge oggi il Bertolucci di Ultimo tango.

Sono due film paradigmatici di questa nostra epoca: non conta cosa raccontano (sostanzialmente hanno ben poco da raccontare) ma come lo fanno, conta l'autoriflessione sulle forme della visione, la mise en âbime del procedimento linguistico. Girare un film in digitale significa tradurre la bassa fedeltà nella scelta consapevole di confondere fra loro linguaggi audiovisivi sempre più tentati dall'interazione reciproca.

A cosa allude la videocamera invasiva che Wang piazza nei punti nevralgici della suite d'hotel a Las Vegas? Al filmino amatoriale a luci rosse (sempre più gettonato, pare, dagli amanti del genere) o alle migliaia di webcam puntate sulla vita privata dei navigatori Internet? L'incipit di The Center of the World - skylines di Las Vegas incorniciati dalle barre grigie del browser con la freccia che scorre in basso simulando la velocità di trasmissione dei bites - lascia propendere per la seconda ipotesi, ma perché scartare la prima?

La critica non ha mai digerito il manifesto lanciato in pasto da Lars Von Trier nell'anno di Idioterne agli esegeti internazionali radunati a Cannes, come ricorda Tina Porcelli nel bell'articolo apparso sul numero 109 di "SegnoCinema" eppure i cineasti sono arrivati in massa a occupare quel territorio spacciato per vergine - trascorso e dimenticato il decennio d'oro della Nouvelle Vague - e destinato allo sbarco di un'avanguardistica e sparuta pattuglia di danesi.

A cinque anni dal Dogma (divenuto nel frattempo marchio seriale) non si contano i registi che hanno aderito a quel "voto di castità" che lì per lì sembrava sfiorare il ridicolo: i più radicali, come lo statunitense Harmony Korine, hanno voluto fregiare i loro film con il bollo di autenticità rilasciato dai capofila danesi (il film svizzero Joyride, ancora in lavorazione, è il numero 14 della "serie" Dogma), ma i più hanno aderito involontariamente alla provocazione di Trier e compagni, mentre lo stesso capofila con Dancer in the Dark trasgrediva il rigoroso decalogo sia inscenando una falsa fedeltà al Dogma che negandolo vistosamente nella parte "musical" del film, bella e struggente come la nostalgia (del cinema).

Nel frattempo le riprese ondeggianti, le immagini sgranate, le inquadrature sporche della macchina a mano - movimenti sbavati, contorni slabbrati, repentine sterzate del punto di vista - sono divenute un marchio di fabbrica che certifica da sé la modernità della forma, come aveva intuito già diversi anni fa Woody Allen nel girare, macchina in spalla, la cinecronaca del disfacimento di un legame in Mariti e mogli.

Alla fine tutte queste forme veicolano la stessa sostanza, l'ossessione del voyeurismo/protagonismo globale in rapporto alla vita privata, concetto sempre più opaco e fluido: non c'è alcuna intimità (titolo del film di Chéreau che abbatte il concetto di distanza minima per guardare i corpi ad altezza dei pori della pelle) che non possa essere violata, non c'è alcun territorio del reale che risulti insondabile all'occhio digitale. Dalla webcam alla leggerissima videocamera palmare alla ripresa satellitare (carta cinematograficamente ben giocata dal Tony Scott di Nemico pubblico [Enemy of the State, 1998]) il dispositivo più invasivo e penetrante è ormai lontano dall'ingombrante e macchinoso set cinematografico, coerentemente abolito dal Dogma. Il risultato è la granulosa e caraccollante immagine/movimento low-fidelity che anticipa la rivoluzione prossima a venire: la rete a banda larga, il cinema digitale trasmesso dal satellite. Da qui l'ossessione congiunta del remake: potenzialmente c'è un secolo di cinema da rifare (da saccheggiare e rivisitare "digitalizzandolo" come è accaduto ai miliardi di documenti trasferiti dal formato originario su Internet).

Domanda: ma un film girato in video digitale ad alta definizione, montato in Avid e poi riversato in pellicola è ancora un film?

 


 

The Contenders
The Contenders

 

 
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