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L'insipienza emotiva del critico

di Cristina Jandelli
  Jude Law
Data di pubblicazione su web 05/12/2001  
Un bilancio a spanne dell'autunno cinematografico si trascina dietro un verdetto d'insufficienza: decisamente pochi i film che meritano qualche riflessione ai margini, ancora minore il numero delle sequenze che si sono stampate, inconsapevolmente, nella memoria e tornano a visitarci di quando in quando.

Sedendosi a tavola con un bambino non si può fare a meno di ripensare alla risata agghiacciante del piccolo Joel Osment, puro strazio interiore: rendere meccanico il gesto più connotativo della mimica umana ha un effetto impressionante, lo stesso che giustamente raggela i genitori putativi del piccolo robot.

Rivedendo le immagini del crollo delle torri che la televisione non ha ancora smesso di proporre compulsivamente (qualcuno ha detto con la speranza che lascino trasparire qualcosa, e invece si negano vigorosamente a qualunque tentativo di interpretazione), gli occhi della mente vanno alla lunga scena di Manhattan sommersa con la punta delle Twin Towers che in primo piano sfonda la superficie dell'acqua e affianca il grattacielo corroso, accartocciato su se stesso, esplorato dalla cinepresa che sta per immergersi con il robottino alla ricerca della Fata Turchina.

Pensando alla pudicizia, il concetto assume una trascrizione visuale precisa nello sguardo "umanizzato" della macchina da presa che si allontana dal letto di morte, dove la vita della mamma e il suo legame con il robot-bambino finalmente ha assunto un senso; attraversa le pareti a vetro fino a restare a distanza di sicurezza dall'involucro-casa carico di angosce, si ferma a metà strada fra il bisogno di contemplare la verità della morte e la necessità di rispettarne il mistero.

Opera imperfetta, indecidibile e pasticciata, A.I. perseguita la memoria visiva degli spettatori come un ritornello stonacchiato che si canta da sé. Perché ci ha fatto piangere e singhiozzare? E perché nessun critico si è dato briga di ricordare che Spielberg è tornato alla sua specialità degli anni Ottanta, il melodramma, con maggiore intensità che ne Il colore viola o ne L'impero del sole? Perché il pluripremiato Schindler's List non si è riproiettato a tradimento (salvo forse la sequenza "di cattivo gusto" del cappottino rosso che si aggira nella folla) e il vituperato A.I. sì, e così insistentemente?

Le domande si accavallano. Perché la critica è penosamente impotente di fronte al ricatto delle emozioni visive? Perché sa dire tutto, e decostruire il film fino ad attribuire senza incertezze la paternità delle invenzioni e delle ispirazioni formali a Kubrick e Spielberg procedendo con diligenza inquadratura per inquadratura, mentre non ha parole per decrittare la stanchezza del regista americano di fronte al linguaggio inimitabile di un genio, e per di più diametralmente opposto al suo?

A.I. è una scommessa che lascia trasparire tutto lo sforzo del cimento; è la storia di una sconfitta, tanto più cocente quanto più alla fine al suo vero autore, inseguendo il proprio fantasma, non rimane altra arma che esaltare la materia prima del suo cinema: la capacità di provocare emozioni.

Il cinema di Kubrick è cristallo: materia rovente raffreddata a acqua. Il cinema di Spielberg fuoco fatuo: balugina intensamente e poi si spenge. Non c'è modo, né motivo, per accostare due cineasti che si respingono tranne il legame che consapevolmente il regista di E.T. ha voluto stringere con il maestro scomparso. Ma il problema della paternità spuria dell'opera - esercizio intellettuale molto intrigante - ha assorbito la critica fino ad accecarla.

Perfettamente a suo agio con l'indagine analitica compiuta sul corpo stilistico del film, il recensore come lo studioso schiva qualunque richiesta di decodifica emozionale negando allo spettatore qualsiasi analisi riguardo a quel che ha provato (e perché) vedendo il film per la prima volta sul grande schermo.

Perché invece di un film a quattro mani, A.I. è più verosimilmente l'opera di un autore elevato a potenza, nella sua marca stilistica, dall'impotenza ad essere altro che sé: il robot non sarà mai un bambino, neanche nella finzione più spinta, neanche in punto di morte. La sua caparbietà fa piangere, commuove quel non arrendersi mai; strazia il rifiuto che gli oppone la madre, attanaglia lo stomaco quel contemplare immobile la statua di gesso della Fata Turchina. Spielberg non è un genio mentre Kubrick lo è stato. Spielberg non può essere Kubrick: dei sentimenti di un robot che non può diventare un bambino il regista di Intelligenza Artificiale se ne intende. E come il robot alla fine del film anche il regista, riscattato dalla sua confessione dolente, pare diventato più umano.





 
 
 
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