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Il fascino discreto della violenza. Riflessione su Elephant

di Filippo Bologna
  un'immagine dal film
Data di pubblicazione su web 16/10/2003  
Il cinema, come diceva quel genio guastatore di Godard, è lo specchio degli altri. Allora può accadere anche di specchiarsi nel film di Van Sant e vedere il riflesso impazzito della morte accarezzare la fragile bellezza della gioventù prima di disperdersi sullo schermo. Un lento ed errante attraversamento di spazi, misurando passo dopo passo la distanza che separa dall'abisso. Chissà se camminando per i corridoi asettici della scuola, se svoltando a destra o sinistra in fondo a un corridoio o in cima ad una rampa di scale, quei ragazzi dalle facce minacciosamente normali avranno avvertito la sensazione di farlo per l'ultima volta. Sembra quasi che nei lunghi piani-sequenza che tallonano i personaggi e disegnano lo spazio tragico della vicenda, ci sia tutto l'incanto del cinema, la precarietà dei nostri gesti, la banalità dell'ultimo istante. Una storia di violenza, cieca ed illogica. La cinepresa non ha bisogno di pedinare i personaggi per avvertirci del pericolo, non ha bisogno di avvicinarsi troppo per rendere questa maledetta storia più vicina a noi di quanto già non lo sia nella cronaca. È già successo. È tutto finto ma purtroppo è tutto vero.

Se non ci fosse stata la strage alla Columbine, la scuola americana in cui due studenti fecero irruzione armati fino ai denti facendo fuco all'impazzata su compagni ed insegnanti, avremmo creduto alla furia sanguinaria di questo film? Eppure è accaduto. La realtà ferisce l'immaginazione. E sono ferite che non si rimarginano. Questo Elephant, vincitore dell'ultimo festival di Cannes, sembra la naturale estensione del bel documentario premio Oscar di Michael Moore, Bowling for Columbine, ne è in qualche modo il contro altare finzionale. Il paradosso è che è più credibile la ricostruzione cinematografica delle nude e grigie immagini a circuito chiuso di Bowling for Columbine, che sono insostenibili perché cronaca impersonale di una tragedia, perché catturate dalle telecamere onnipresenti, migliaia di occhi, di sguardi senza intenzione che ci spiano silenziosi ogni giorno.

Gus Van Sant a Locarno


Elephant non è il solito film violento, casomai vio-lento, compassato nella prima parte ed efferato nel finale. Di una violenza svuotata d'intenzionalità ed immotivata, e proprio per questo ancora più intollerabile. Nella prima parte della vicenda, ci vengono presentati i personaggi: John, Eliah, Nathanel e Cornie, i giustizieri Alex ed Erik, e tutti gli altri, vittime involontarie di un disegno che differisce le traiettorie del destino quel tanto che basta per farle deragliare verso la morte. Ogni personaggio viene presentato, come nei capitoli di un romanzo ,sorpreso nella sua vita quotidiana. C'è chi ha la passione della fotografia chi deve fare da padre al padre alcolizzato, chi vive l'amore acerbo dell'adolescenza e chi si sente brutto e inadeguato. Sono storie così comuni, ragazzi come tanti, felpa e scarpe da ginnastica, figli del PC e del grande Occidente ammalato.

Van Sant adotta una tecnica sofisticata, macchina in spalla per ottenere movimenti avvolgenti, dirigere traiettorie, seguire e precedere i personaggi dentro e fuori la scuola, entrate e uscite che tracciano un labirintico avvicinamento alla crisi omicida del finale. Alcune sequenze, come in gioco di specchi in cui i riflessi si moltiplicano all'inverosimile, sono girate adottando molteplici punti di vista dei personaggi, anticipi e dilazioni impercettibili, incroci narrativi che portano in primo piano chi era di quinta e viceversa. Variando la focalizzazione interna al personaggio, il regista dilata lo spazio tempo del film fino ad ottenere l'effetto di un sinistro presagio, la calma che aleggia nell'occhio del ciclone. Dopo l'inizio poetico dall'incedere decelerato, nella seconda metà il film è costruito come un terribile videogioco in semisoggettiva in cui la posta in gioco è la vita stessa. E l'incanto primitivo di un cielo al tramonto o l'armonia segreta di una sonata di Beehtoven sono solo un fugace inganno. Anche la bellezza può nascondere l'orrore.

Questo riscatta il film dalla facile ricerca sociologica di un capro espiatorio per la violenza: non c'è bisogno di essere omosessuali, di guardare documentari su Hitler e di giocare con la Play Station per covare un demone dentro di sé. Spesso purtroppo basta essere normali. Troppo normali forse. Tutto sospeso in questo gelido film, tutto interrotto prima del naturale compimento, le foto che non vedremo mai e le giovani vite recise troppo presto. Anche la fine arriva prima che sia tutto realmente finito, quando speriamo che finisca presto questo orrore ma non crediamo ancora nella liberazione della fine. È il rovescio impensabile dell'immaginario: una volta avremmo detto: sembrava un film. Oggi possiamo solo dire: sembra vero.




locandina




Elias McConnell

Elias McConnell

 
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