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Con il mare negli occhi

di Franco Sepe
  Raf Vallone e Gordana Miletic in un fotogramma de La garçonnière
Data di pubblicazione su web 03/12/2002  
Benché con voce ancora robusta a parole si esprimeva poco in quel nostro ultimo incontro presso la sua amata Sperlonga, amata quasi quanto la mitica Calabria, dove ora riposano le sue ceneri. Ed era triste constatare come un conversatore di rango come lui avesse dovuto arrendersi alla malattia e agli anni - i quali però, per sua e altrui fortuna, avevano intaccato soltanto il fisico, un tempo appartenuto ad un atleta, lasciando al pensiero, in quelle sue osservazioni divenute sempre più rare, lo scatto perspicace e l'immancabile ironia.

Aveva il mare negli occhi, come taluni pescatori del sud il cui volto brunito dal sole fa rifulgere, per contrasto, dalle trasparenze azzurrine l'essenza inafferrabile della profondità. È questa l'immagine che in sua assenza, un'assenza senza possibilità di revoca, amo conservare di Raf. Un'immagine che, almeno nel ricordo, e nella mia percezione fortemente influenzata dai luoghi fisici - per lui e Giuseppe De Santis una maniera ciociara (o un ciociarismo di maniera), e un modo di essere di certa poetica neorealistica, per me un potente richiamo alle origini, che sono le medesime del regista - ricompone le due metà vittoriose del personaggio: il volto e l'aspetto da popolano (dal pastore di Non c'è pace tra gli ulivi allo scaricatore di porto di Uno sguardo dal ponte) eppure dietro, ben celato, l'intellettuale che prima della notorietà artistica aveva dato abbondantemente prova delle sue capacità professionali, curando ad esempio in maniera impeccabile e con forte spirito innovativo, tra il '46 e il '48, la pagina culturale dell'Unità. Attività a sua volta preceduta dal mestiere del calciatore, sorta di lavoro nei campi dove lo sport sostituisce l'aratro ma non la rudezza, e che l'agonismo spinge verso l'affermazione e il farsi idolo, propri del divismo, che non a caso arriverà con il cinema.

E certo è stato il cinema a magnificare le doti di questa superba personalità, già formatasi alla scuola di grandi ingegni quali Mario Fubini e Luigi Einaudi, all'antifascismo militante e all'attivismo partigiano, che per poco non gli costarono la pelle; è stato il cinema a fare di lui nel dopoguerra la prima star italiana internazionalmente riconosciuta; ma è stato anche quello stesso cinema ad adombrare ingiustamente, presso il grande pubblico, meriti e qualità che emergono, in maniera sbalorditiva, dalle memorie dell'uomo apparse in volume appena un anno fa.

Se infatti, tralasciando le impressioni con cui esordivo, rivado al nostro primo colloquio avvenuto una ventina circa d'anni fa, mi torna in mente un'affermazione con cui, lamentando il fatto di essere stato in epoca neorealistica "letteralmente fagocitato dal cinema", aveva preso le difese del teatro, sua "vera grande passione". E confesso che la cosa mi stupì non poco, benché proprio in quei giorni avessi letto sui giornali della "prima" al Piccolo di Milano, protagonista Raf Vallone, di Nostalgia di Franz Jung, per la regia di Klaus Michael Grüber. Ma come me, specialisti a parte, quanti sapevano delle sue grandi prove - delle quali, come per tanto teatro del passato, restano pochi filmati; quanti sapevano delle sue regie teatrali e operistiche, delle sue traduzioni di poesie nonché di drammi (da Shakespeare a Miller) da lui stesso interpretati, dei manoscritti ricevuti in dono da Sartre e Camus, e della pièce che quest'ultimo, se l'incidente non ne avesse troncato l'ancora giovane vita, stava per scrivere "su misura" per lui?
Per questo ed altro, oggi posso senz'altro dire che aver conosciuto e fatto amicizia con Raf Vallone, l'aver potuto avvicinare la sua immensa esperienza di uomo e artista, è stato per me un raro e irripetibile regalo. Ma soprattutto un insegnamento, nella testimonianza di uno dei grandi protagonisti del Novecento, appresa una volta tanto dalla vita stessa e non dai libri.


 
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