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Marisa Fabbri. L'arte d'interpretare impegno e passione

Marisa Fabbri ha detto di sé e del teatro


di Carmelo Alberti e Sandra d'Alessandro
  Marisa Fabbri
Data di pubblicazione su web 17/06/2003  
L'impegno e la passione che Marisa Fabbri ha saputo imprimere in ogni episodio di un'intensa e indimenticabile carriera d'artista della scena contemporanea non sono spenti, ma continuano a germogliare nell'immaginazione e nel cuore di tante, tantissime persone, come una traccia indelebile ed efficace, che esula dal ristretto ambito teatrale. Anzi, si può dire che il suo modo originale di essere attrice inizia prima e prosegue oltre l'episodio della rappresentazione, perché Marisa è una intellettuale per cui non esiste frattura alcuna tra vivere e agire, tra idealità e prassi.

La curiosità e la necessità di stare con gli altri è la distinzione di una donna che scommette sulla ricerca come azione incessante, che sviluppa il proprio mestiere lungo la difficile linea di scambio tra società e arte. Conta, insomma, nella sua utopia la consapevolezza che il punto di tensione più proficuo stia nell'eterna dialettica dello scambio culturale, nel fervore di sapersi parte integrante della storia civile dell'umanità.

Basta passare in rassegna l'ampio ventaglio delle sue visitazioni drammatiche, per comprendere fino a che punto Marisa Fabbri possa utilizzare il linguaggio della scena per sé, ma in funzione degli altri; mentre cresce la sua determinazione nell'affermare una visione impegnata della recitazione – a dispetto dell'opinione comune e della diffidenza dei responsabili teatrali – parallelamente, s'accentua la vocazione ad ascoltare e ad insegnare, a trasmettere insieme al proprio sapere tecnico-artistico il suo interrogarsi. Marisa, infatti, è sempre disponibile a promuovere con convinzione le drammaturgie di giovani scrittori, senza timore di correre rischi; anzi, il rischio si traduce ogni volta in adesione a un progetto, ad un'idea, ad un sogno di poesia.


marisa fabbri
Diamante in I giganti della montagna (1966), regia di Giorgio Strehler. Fotografia di Luigi Ciminaghi dall'archivio del Piccolo Teatro
 
È lungo la via della poesia che Marisa Fabbri sospinge al di là dei limiti la sua vocalità. In maniera discreta, senza uscite eclatanti, l'indagine sul suono della parola, sulla significazione del parlato-cantabile è risultato un saggio investimento delle proprie risorse artistiche, raggiungendo vette impensabili, soprattutto nel territorio del tragico rivisitato con lo sguardo della contemporaneità. Occorre ripensare agli esiti del Laboratorio di Prato, negli anni Settanta, insieme a Luca Ronconi e ad un nucleo di uomini di scena, per sentir risuonare nelle orecchie l'esemplarità della sua Clitennestra nell'Orestea del 1972: ascoltandola, è come se le parole ritrovassero l'arcaicità che ciascuno può solamente intuire, andando indietro con la fantasia oltre i confini della civiltà; le vibrazioni della sua voce restituiscono le pulsazioni essenziali di un sistema di comunicazione (si può dire, anzi, di un sistema circolatorio) che ha perduto la labirintica attitudine verso l'oralità. E si rammenti, inoltre, quella parte del racconto delle Baccanti, detto in solitudine, come se a ripensarlo sia un testimone qualunque, posto fuori dal cerchio della mimesi.

Marisa Fabbri contribuisce a rendere manifeste le lezioni dei nostri migliori maestri: come è avvenuto nel rapporto che ha con la passione descrittiva di Aldo Trionfo, nei Dialoghi con Leucò (1964), tratto da Cesare Pavese, in Vinzenz e l'amica degli uomini importanti (1964) di Robert Musil; oppure nel notevole apporto che offre alle messinscene politiche di Giorgio Strehler, nei Giganti della montagna (1966) e nella Cantata del fantoccio lusitano di Peter Weiss (1968).

La lunga collaborazione con Ronconi coincide con la fase dell'esaltazione interpretativa; non è un caso che tra il regista più anti-teatrale della nostra scena e l'attrice-intellettuale si stabilisca una complicità assoluta: in ogni occasione, la presenza di Marisa aggiunge un ulteriore livello di significazione scenica al disegno ronconiano, perché a lei compete la soluzione finale dei suoi personaggi, sia pure entro la pista definita dal regista.

Una prova in particolare è da sottolineare, una prova che appare in sintonia con il gioco del travestimento avviato con I lunatici nel 1973: si tratta della splendida, titanica interpretazione del vecchio occultista Ludwig in Ignorabimus (1986) di Arno Holz, viaggio nell'universo del positivismo, una prima indagine condotta da Ronconi sui misteri della scienza. Marisa Fabbri, insieme ad altre quattro attrici, elabora nel corso delle dodici ore del dramma, sotto una pesante corazza maschile, l'attonito candore di un uomo dotto, assorto nell'osservazione speculativa dell'ultranaturalità: la sua voce risuona alla stregua di un'eco che scaturisce dalla complessa griglia del pensiero, dai meandri di una fervida mente razionale.


Nunziata in Gallina Vecchia (1999), regia di Angelo Savelli
Nunziata in Gallina Vecchia (1999), regia di Angelo Savelli

Allo stesso modo, segna con la sua partecipazione la superba messinscena de I dialoghi delle Carmelitane di George Bernanos, spettacolo che sfortunatamente ha avuto una breve esistenza. E come non far riferimento alla precisione espressiva che l'attrice dà alla trascrizione televisiva del Gian Gabriel Borkman di Ibsen; oppure alla tensione verso la forma pura manifestata nell'Uomo difficile di Hugo von Hofmannsthal (1990), che le fa ottenere il premio Ubu; e poi, ancora, la misurata presenza all'interno della prodigiosa macchina de Gli ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus al Lingotto di Torino.

Mentre elabora soluzioni d'alto profilo, Marisa sceglie di percorrere altre strade, senza mai rinnegare la matrice fonetica che la rende inconfondibile di fronte ai suoi spettatori. Nel 1993 accetta di misurarsi con un personaggio inconsueto, quello di Donna Rosega, protagonista de Le massere di Carlo Goldoni, con la regia di Gianfranco De Bosio, in cui recita per la prima volta in dialetto veneziano e in versi martelliani; in tale occasione riesce a infondere alla figura di una serva rozza e malfidata un soffio di genuino sentimentalismo, frammisto ad una tenera trepidazione erotica, al punto da trasfigurarsi nel volto, nei gesti, nel parlare mentre apre uno spiraglio di luce nella grettezza d'animo e nell'avidità di una donna senza morale e senza scrupoli.

Marisa Fabbri trova continuamente slancio nel perenne monologare di un'artista indagatrice, cercando risposte in un genere verso il quale indirizza volentieri le proprie energie, cioè in uno spazio-tempo dove il tessuto della narrazione e della rappresentazione si combinano nel crogiolo della parola. Chi ha avuto la possibilità di osservare Marisa mentre conversa fuori scena intorno ai fatti del mondo, oppure mentre insegna e trasmette ai giovani allievi dell'Accademia, o ai partecipanti di uno dei tanti seminari che tiene da una parte all’altra della penisola, la giusta dose di musicalità necessaria per esaltare il mestiere dell'attore, non scorderà mai il fervore del suo impegno e la serenità della sua intelligenza. Così, sul palcoscenico, fin dall'inizio, dai tempi del teatro universitario fiorentino, a quelli del gruppo Teatro-Lavoro, Marisa Fabbri continua a credere nel sogno di un'arte in grado di far risuonare le corde più segrete della sensibilità e della coscienza.

La sua filosofia rimane compatta, racchiusa nella certezza che non esista differenza di sorta fra impegno sociale e passione teatrale. Sapendo stare anche dalla parte dello spettatore, le è facile comprendere quanto conti misurarsi con il senso comune e con le inquietudini del proprio tempo; ma la responsabilità di chi sa leggere più in profondità le note del mondo è quella di non arrestarsi al primo traguardo, di non smarrirsi mai dinanzi alle difficoltà iniziali. In tal modo la sua indimenticabile voce continuerà per sempre ad innalzarsi dal silenzio della memoria come l'incitamento a vincere la sfida più difficile, quella che riguarda il mestiere di vivere.

Marisa Fabbri ha detto di sé e del teatro


Marisa Fabbri

 
La mia generazione si è formata nel dopoguerra. Facevo teatro sin da bambina e ho sempre guardato a Brecht, e Brecht diceva: prima bisogna essere cittadini poi attori. Se l'attore non ha coscienza politica del suo tempo, il suo lavoro non vale nulla. Bisogna sapere di "polis". Allora tutti i cittadini capirebbero che la politica è una cosa altissima. Io sono una persona di passione e la passione è la forza che sempre mi sorregge. È come ripeteva Strehler, che ognuno si porta il suo cappotto in palcoscenico. Io ci porto l'impegno e la tensione del mio mestiere, l'essere attrice come appartenenza a una classe, nel senso di una prospettiva che sta dentro al corpo politico, e che esiste in ognuno.

Strehler mi ha dato le palafitte. Mi ha insegnato a stare sul palcoscenico e come si fa a possedere il palcoscenico. E Ronconi mi ha dato tutto il resto. Penso che sia inevitabile, ma nell'arte questo è quasi indispensabile: imbattersi prima o poi in qualcuno che abbia la tua stessa visione del mondo, la tua stessa predisposizione verso qualcosa. Ronconi mi ha insegnato la sua rivoluzione: mi ha insegnato come si legge un testo, che cos'è l'interpretazione, la struttura drammaturgica, mi ha insegnato come in palcoscenico si diventa “scrittura vivente”: che dopo esserti entrata dentro zampilla fuori, attraverso la vita.

Ronconi ti obbliga a muovere in maniera così profonda i tuoi meccanismi interni, la mente e i sentimenti, che non ti resta che procedere per addendi e innalzare un poco alla volta quella costruzione che ti chiede. Ogni giorno devi cimentarti con te stesso, ricercare di continuo, mostrarti sempre diversa e sempre un pochino più avanti, costretta a fare sempre i conti con la tua professionalità. Recitare in questo modo vuol dire stare perennemente all’erta. Ma questo credo sia il modo di fare teatro, il modo migliore, anzi, l'unico. Altrimenti recitare diventa un mestiere come un altro, una serie di tecniche, una professione.

Ogni volta che affronto una commedia, prima ci vado allegramente, come ad una festa, poi inizia la malattia fino a quando non si va in scena, fino a quando non si possiede la parte non esco da questo stato. Ogni spettacolo è un'azione verso la conoscenza, che alla fine procura benessere. Ogni volta che si fa teatro con Ronconi ne esci con la sensazione di aver fatto un lavoro utile, un lavoro di grande arricchimento, che serve alla formazione del gusto e allo sviluppo critico, di aver affermato ancora una volta che il teatro è un luogo dove fare esperienza è il percorso di una conoscenza necessaria.

Io mi propongo di entrare nella scrittura teatrale e Ronconi questa scrittura la fa diventare teatro. Quella di Ronconi non è mai un'idea sul testo: Ronconi fa il testo, lo realizza. Quello che viene fuori dai suoi spettacoli è il testo: l'autore da una parte e gli spettatori dall'altra, messi nella situazione di decidere per conto proprio, cioè di saper leggere lo spettacolo, di saper comprendere –chi vuol comprendere. Noi non siamo altro che scrittura vivente, diventiamo un riflettente dell'autore ma anche dello spettatore. Questo ho imparato da Ronconi. Affrontare il teatro in questo modo è molto stimolante e molto faticoso, ma è anche il piacere di fare esattamente quello che piace fare a me. Se non fosse così, il teatro diventerebbe un mestiere come un altro, noiosissimo e anche un po' bischero.

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Le scelte poi a volte diventano quasi una necessità, nel senso che magari non si fa un autore, una commedia perché piace, ma perché si deve. Fare una signora con un bell'abito bianco che mostra alla gente la faccia di una che non capisce le cose, il mio bel personaggio della madre austriaca guerrafondaia e nazionalista, che mi è dispiaciuto tanto lasciare, con la grande emozione di stare nello spazio risuonante del Lingotto, un luogo di grandi lotte politiche, un posto che ne ha viste di belle e di brutte, e dove Ronconi ha voluto mettere Gli Ultimi Giorni dell’Umanità.

Quello che ho imparato dai miei due assoluti maestri, Strehler e Ronconi, è ciò che ho sempre cercato di insegnare. C'è un doppio binario per l'attore, prima intellettuale poi tecnico: prima il rapporto con la scrittura drammatica, poi il sapere governare i mezzi espressivi. Prima di tutto bisogna saper leggere il testo, partire dalla sua sintassi, dalla sua necessità linguistica. Ci vuole una grande educazione. È come scrivere. L'esercizio linguistico è imprescindibile. Ho imparato a riconoscere il talento, ma io preferisco dire la predisposizione di un giovane attore, da come capisce la battuta. Talvolta ti trovi di fronte aspiranti attori che apparentemente sembrano sciapi. Se però li ascolti, ti comunicano una chiarezza interiore, uno humour particolare: è l'intelligenza della battuta. Saranno questi ad avere un bel destino.

Al di là di Ronconi e di Strehler, ho sempre pensato che se si doveva fare teatro bisognava trovarne la necessità. Ho capito che dobbiamo guardare al teatro come a una grande necessità contemporanea. Non ho rimpianti per gli anni Sessanta e Settanta, per gli entusiasmi di quegli anni. Sono contenta perché il nostro lavoro serve da modello ai nostri allievi. Fare poi teatro oggi, in un mondo in cui dilaga la tecnologia, è ancora più utile: tutta l'arte moderna è estremamente riflessa, solo il teatro per sua essenza continua a far incontrare gli uomini senza schermi. Il teatro è una delle poche occasioni di comunicazione vis à vis, forse è l'unico luogo dove si parla da uomo a uomo.

Accetto di lavorare con chi domanda l’incontro con la metodologia d’attore che ho avuto il privilegio di percorrere: credo certamente nel valore della trasmissione delle esperienze. Io ho avuto il privilegio di percorrere il grande teatro con grandi registi, autori e registi con tanti più anni e con una storia che credo di aver acquisito: questa conoscenza dà senso e allegria alla mia vita.

Il grande abbraccio che mi manda la platea mi fa un effetto che, come la felicità, non si può descrivere. Il resto poi conta pochissimo. Chi sceglie un mestiere affascinante come il mio non chiede altro, e se salva i suoi affetti è fortunato. Sì, un mestiere che è una scelta di vita, un viaggio attraverso percorsi paragonabili a labirinti lungo i quali la curiosità non è mai sazia, un viaggio irripetibile, unico, uno dei pochi che faccia crescere e, attraverso la conoscenza, dia una giustificazione alla vita.


 
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Marisa Fabbri ha detto di sé e del teatro


Ludwig in ''Ignorabimus''(1986), regia di Luca Ronconi.
Ludwig in ''Ignorabimus''(1986), regia di Luca Ronconi.

 

 

 


 

Il canonico Stupendo nel film
Il canonico Stupendo nel film "Gli Astronomi" (Italia, 2002) di Diego Roncisvalle



 

 


 









 



















 
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