Facendo seguito alla riflessione aperta su «Drammaturgia» il 19 ottobre 2016, in ricordo di uno dei nostri più grandi attori-autori, Intorno a Dario Fo di Teresa Megale e Siro Ferrone, e per rispondere in modo meno polemico e più approfondito al dibattito con cui i principali quotidiani nazionali hanno accompagnato – poco elegantemente – i funerali dellartista, in merito soprattutto alla presunta “partecipazione volontaria” alla Repubblica di Salò, propongo un contributo inedito per ripensare da una prospettiva nuova il legame tra spettacolo – “comico-popolare” in particolare –, cultura e storia politica (Resistenza, fascismo, poi “American Way of Life”) negli anni dellimmediato dopoguerra. Eravamo tutti per un cambiamento generale,
in arte come in politica, e non davamo retta
al partito, che ci diceva di fare gli artisti e di
rimanere al nostro posto. Oggi è impensabile
cosa fosse Milano allora e come un pittore,
quale io volevo essere, si sentiva coinvolto
da tutte le forme di espressione, dai racconti
sul Politecnico ai film neorealisti: non pensavo
al teatro, ma il teatro ci riguardava un po tutti.
(Dario Fo, Itineraire artistique,
in Mistero buffo, Bertani 1973, p. 196) Ogni epoca dovrebbe far nascere dalla propria
realtà un Teatro completamente nuovo. Ad ogni
epoca il compito di scoprire i motivi che rendono
attuale e necessario lincontro palcoscenico-platea,
di riproporre come consuetudine landare a Teatro
[…]. Una ventata daria nuova può entrare solo se
apriamo la porta del palcoscenico a nuove mentalità,
a nuove concezioni
Franco Parenti, in «Sipario», settembre 1955 Sappiamo quanto sia complesso affrontare lintreccio delle esperienze, eterogenee e in taluni casi divergenti, che vanno sotto il nome di Neorealismo e, ancor di più, capire se e quali relazioni possono esserci state fra tale fenomeno e il teatro comico degli anni Quaranta-Cinquanta del Novecento. Nel suo recente volume Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra (2014), composto da circa trecentocinquanta pagine, Stefania Parigi ne dedica meno di venti alla declinazione comica, intitolando questa parte Il riso neorealista, allinterno della sezione dedicata a Forme e generi. Per giunta, in apertura di paragrafo, premette prudentemente come «il Neorealismo viene percepito dalla critica del dopoguerra come una sorta di personaggio tragico, legato alla guerra, al lutto, alla miseria e alla disperazione. Tutto ciò che fuoriesce da questo spettro di toni e di condizioni tende a essere collocato al di là dei suoi confini». A questo punto la studiosa cita la commedia, affermando come alcuni elementi riconducibili a tale genere, «presenti naturalmente anche nei film drammatici, vengono spesso considerati come residui della tradizione o come infrazioni alla purezza dei nuovi principi etici ed estetici». Al confronto – fa notare lautrice – in tali film rappresentativi per la storia del Neorealismo, molti aspetti, primo fra tutti il carattere popolaresco della recitazione degli attori come Anna Magnani o Aldo Fabrizi, introducono nel nucleo tematico una «vis comica da palcoscenico dialettale». Il caso emblematico è rappresentato da Erminio Macario e dalla comicità da avanspettacolo adattata ad un contesto cinematografico. È noto come, a partire dagli anni Trenta del Novecento, la crisi profonda attraversata dal cinema nel passaggio dal muto al sonoro spinga i produttori come Stefano Pittaluga degli stabilimenti Cines a reclutare nuovi attori più adatti ad una interpretazione “di parola” e non più mimica – tanto è vero che egli «dà mandato ai suoi agenti di disertare i palcoscenici del teatro drammatico e di frequentare il “parco attori” del teatro leggero, del teatro dialettale e, soprattutto, del varietà». Sarà proprio «da questi “contenitori” che potranno emergere (ed emergeranno) le nuove attrici e i nuovi attori del cinema sonoro italiano», tra cui anche uno dei padri del Neorealismo, Vittorio De Sica, proveniente dalla compagnia teatrale Za-Bum, diretta da Mario Mattioli (che già nel 1932 trasmetteva con successo da Torino, con la parodia, offerta da De Sica, dellattore americano John Gilbert e del suo rovinoso declino in seguito allavvento del sonoro). Ma con De Sica, anche molti altri attori, provenienti dalla commedia brillante e dal varietà, di seconda generazione: Elsa Merlini (della compagnia Merlini-Cialente, con la quale debutterà Franco Parenti), attrice e cantante con Vittorio De Sica, il figlio darte Armando Falconi, e poi Aldo Fabrizi e via dicendo. Varietà e cinema, dunque, vivono un rapporto stretto e confidenziale, proprio sul piano attoriale, soprattutto quando i produttori affrontano la difficoltà di reperire attori in grado di uscire dai canoni mimico-espressivi del “muto”, ovvero dalle pose declamatorie – diciamo così – morrocchesiane, fatte salve alcune eccezioni, come è il caso di Maria Jacobini (la quale, a differenza di altre colleghe incapaci di adattarsi al nuovo cinema parlato, ha modo di continuare a lavorare, passando però a ruoli secondari, da caratterista). Tale rapporto si fa ancora più stretto con il cinema neorealista (dove gli attori professionisti affiancheranno i non professionisti) ed è storia nota, ma cè da dire che il mero passaggio degli interpreti da un “contenitore” allaltro è solo il versante più evidente – la punta dellicerberg – di un fenomeno più complesso riguardante la dialettica tra dimensione comico-popolare e istanze neorealiste. Infatti, anche se non si può parlare di una “corrente neorealista” nello spettacolo dal vivo, gli argomenti a favore di uno studio sulle relazioni, persino controverse e contraddittorie, tra esperienze teatrali e esperienze neorealiste (letterarie e cinematografiche) sono in ogni caso molti, nel clima complessivo della cultura italiana dellepoca. Ovviamente, in prima battuta si pone un problema di datazione, sul quale rimando al recente saggio di Romano Luperini dal titolo Il neorealismo: riflettendo sulle date. Concordo innanzitutto con lo studioso sul fatto che sarebbe opportuno parlare di «neorealismi», in quanto non esiste una scuola organica ma un fenomeno variegato e composito, che tuttavia presenta alcuni tratti comuni. Attingendo alla classificazione da lui stabilita – diversa da quella delineata da Maria Corti alla fine degli anni Settanta – larco di tempo in cui gli attori-autori Franco Parenti e Dario Fo iniziano a lavorare (seppur non ancora congiuntamente) sul recupero di una tradizione orale locale, tesa alla rappresentazione della realtà sociale e alla riscoperta dei piccoli mondi regionali, è esattamente quello definito da Luperini «realismo simbolico», corrispondente agli anni 1940-1948. Per comprendere il percorso che sto cercando di tratteggiare, è utile prima di tutto chiarire quale rapporto hanno avuto i due attori-autori lombardi con la Resistenza e con il fascismo. Franco Parenti, terminati gli studi allAccademia dei Filodrammatici a Milano, debutta nella già citata compagnia di prosa Merlini-Cialente, che propone testi diversi rispetto alla «media del teatro italiano condizionato dal fascismo», ma con la guerra il repertorio è «bloccato e limitato». Egli, però, nel 1941, alletà di ventanni, è già stato chiamato alle armi e nel 1943 internato in un campo militare in Germania. È proprio al rientro dalla prigionia tedesca, nel 1945, in una Milano disfatta come il resto dItalia, che Parenti inizia ad alternare alla prosa la rivista, il varietà e lavanspettacolo. Nel frattempo (1940), Dario Fo ha quattordici anni, sei meno di Franco, vive in campagna ma studia arte al liceo di Brera a Milano. La vita domestica di campagna risente in ritardo dellentrata in guerra dellItalia e la situazione muta solo con lo sbarco alleato in Sicilia, nel luglio del 43, e la conseguente caduta di Mussolini. Come molti altri giovani, anche Fo, in tale frangente, si trova coinvolto in una situazione moralmente e politicamente confusa: Dario e la sua famiglia sono convinti antifascisti, il padre Felice è uno dei membri di spicco del CNL locale, la sezione del Comitato di Liberazione Nazionale con sede a Sartirana Lomellina in provincia di Pavia, ma il loro paese e lintero interland in cui si trovano a gravitare è governato dalla Repubblica di Salò (RSI). A Porto Valtravaglia sul lago Maggiore, comune di nascita di Dario, accade persino che le fabbriche locali siano convertite in caserme per il Settimo Reggimento di fanteria e, per un breve periodo, la stessa casa dei Fo è requisita e usata come avamposto. Le memorie della famiglia ricordano come la camera della sorella Bianca divenga il quartier generale di un colonnello della RSI, mentre tutti i Fo, in segreto, sostenevano i gruppi locali dei partigiani, alcuni dei quali risiedevano a casa del nonno ottuagenario, detto Bristin, vicino ai boschi lungo il Po. L8 settembre del 1943, quando ha ormai diciassette anni, Dario riceve la chiamata dalla Repubblica di Salò e, in conformità agli ordini ricevuti, si arruola nellesercito a Varese. Nellarchivio Fo/Rame esiste un documento (cartella 21) che rende testimonianza dei diversi resoconti sulla delicata vicenda. Il giovane Fo non è in grado di decidere né per la fuga in Svizzera né per larruolamento con le forze partigiane, contravvenendo allordine ricevuto: egli vuole «portare a casa la pelle». Quando mi trovai richiamato – racconta Fo – avevo davanti poche possibilità. Andare con i partigiani non era facile perché in quel momento le bande della zona erano smantellate per i continui rastrellamenti tedeschi. Scappare in Svizzera era diventato molto complicato: se ti trovavano ti riaccompagnavano alla frontiera. Preferii scegliere una posizione di attesa e cercare di liberarmi della leva con un trucco. Inoltre, egli giustifica gli indugi e la non scelta con lintenzione di evitare che una diserzione potesse comportare unispezione da parte delle milizie della RSI a casa della famiglia, mettendo così in pericolo il fronte di Liberazione Nazionale coordinato dal padre. Per tutto ciò e anche per altre motivazioni che non siamo in grado di conoscere, egli adotta una «tecnica di dilazione», arruolandosi con lartiglieria antiaerea a Varese, convinto di poter tornare presto a casa, visto che la divisione in questione non ha in realtà attrezzatura militare per rendersi operativa. Le previsioni di Fo, però, non si avverano. Egli viene trasferito in area tedesca per rimpiazzare i serventi alla contraerea decimati dai bombardamenti. A questo punto diserta e va a nascondersi tra le montagne. È qui, nel confronto con le realtà rurali e con i protagonisti della Resistenza, che comincia a capire il valore del recupero delle storie tradizionali dei cosiddetti “fabulatori del lago”, mitici contastorie della sua infanzia, ma anche del nonno Bristin, inventore di fiabe e leggende, e delle canzoni popolari che accompagnavano il lavoro nei campi, sulle montagne e nelle isole lacustri: un intero materiale orale che confluirà poi nello spettacolo Ci ragiono e canto del 1966, assieme alle canzoni della Resistenza (originali e dinvenzione). Narrazioni genuine e crudeli che colpiranno la fantasia di Franco Parenti, quando Fo, tempo dopo, nel 1950, si presenterà di fronte allattore milanese, già affermato, per proporgli di accompagnarlo sul palcoscenico durante uno spettacolo a Intra. Mi venne a trovare a casa quel ragazzone un po timido, imbranato, a chiedermi farfugliando se poteva partecipare a una specie di show che io dovevo fare a Intra. Mi disse che lui era di quella zona, che era bravo a raccontare delle storielle come Rascel, come Walter Chiari, i comici che allora andavano per la maggiore. Me lo portai dietro convinto che fosse il solito dilettante, ma quando lo vidi in palcoscenico non credevo ai miei occhi. Cominciò con una specie di parodia del jazz, accompagnandosi con il corpo, con i gesti, con una mimica efficacissima. E poi, subito dopo, si mise a raccontare storielle violente, paradossali, assolutamente originali, che non avevano niente a che vedere con quel che si sentiva dai comici della rivista. Alla fine gli dissi che mi era piaciuto moltissimo e passammo il resto della notte sul lungolago con Dario che mi improvvisava tutte le altre cose del suo repertorio. Occorre precisare che, malgrado Fo non si sia mai unito ai partigiani, la Resistenza diverrà, anche per lui, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta e per tutti gli anni Sessanta, il grande mito della Liberazione, presenza costante nelle sue opere, riletto alla luce di nuove scoperte intellettuali e ideologiche, come gli scritti di Gramsci, Marx, e poi Brecht, Majakovskij, Lorca. La rappresentazione della Storia recente sarà sentita da Fo come operazione urgente per sottrarla alla falsificazione che, secondo lautore, si stava operando a partire dalla Svolta di Salerno. Durante il processo per diffamazione del 1978, in seguito alla querela che Fo presenta contro chi lo ha definito pubblicamente «repubblichino e rastrellatore di partigiani», egli afferma più volte di non essersi mai sentito repubblicano e di aver condiviso, al contrario, lentusiasmo dei partigiani e quella «vitalità estrema» dei giovani del nord, nel momento della Liberazione, così come la descrive Primo Levi di ritorno a Torino da Auschwitz: una vitalità che questultimo, per ovvie ragioni, si rammaricava di non poter condividere. Conclusa la guerra, Dario riprende gli studi a Brera, trasferendosi a Milano. Intanto, la cultura americana si sta diffondendo anche in Italia, come testimoniano le trasmissioni radiofoniche del tempo, che ci raccontano un paese desideroso di riscatto e di nuove occasioni di coesione nazionale, per lasciarsi alle spalle le sofferenze, i lutti e le rovine, e per vivere in pace, come recita il titolo di un noto film di Luigi Zampa (1947). I mezzi di informazione e di intrattenimento, soprattutto la già citata radio, alimentano limmaginario di una nazione che vuole guardare a The American Way of Life come ad un modello di progresso e di infinite possibilità di affermazione di sé. Anche se i due attori-autori sembrano indulgere ad unaccoglienza massiccia – peraltro mai acritica – dellamerican style, è indubbio come la predilezione sia rivolta a quegli aspetti della cultura transoceanica che possono rappresentare strumenti di denuncia, ricalcando per esempio nelle proprie songs musicalità jazz (genere considerato dal fascismo “moralmente dannoso”) o be-bop, musica che esercita una duplice attrattiva: stilistica, per lonomatopea, in un periodo in cui Fo sta facendo le prime prove di grammelot, e ideologica, in quanto nata a Manhattan, nel cuore dellAmerica nera, emblema della ribellione al dominio dei “bianchi”. Subito dopo lavvio del Piano Marshall (giugno 1948), durante il periodo della ricostruzione e la prima fase del miracolo economico, Franco Parenti e Dario Fo divengono i protagonisti delle stagioni radiofoniche nazionali: dallinverno del 1949 in avanti. Il primo diviene celebre in RAI con il personaggio di Anacleto il gasista, una voce satirica che esprime un giudizio critico dai toni graffianti sullItalia del dopoguerra; il secondo, lanno successivo e per tutto il 1952 – e cioè sino a quando la trasmissione è sospesa dalla censura – dà vita alle controstorie del Poer nano, narrazioni surreali che mischiano una tradizione apocrifa medioevale o cinquecentesca con uninventio autoriale e attoriale. In un primo tempo inserite allinterno della trasmissione Chicchirichì, realizzata con Giustino Durano, dove spicca il personaggio, interpretato da Fo, dellImpiegato Bertoluzzi, poi Gorgoliati (o Gorgoluzzi) – vera e propria satira di costume dellItalietta anni Cinquanta – vivranno ben presto in autonomia, accanto alla presenza vocale di Parenti/Anacleto. Le macchiette dellImpiegato di Fo e del Gasista di Parenti, dal punto di vista dellimmaginario scenico che descrivono, rappresentano già una declinazione successiva rispetto al Poer nano, in quanto rispecchiano il mondo della città (in particolare Milano) e non più quello rurale, contadino e mitologico, dove la violenza – seppur cera – abitava in un alone poetico ben diverso dalla prosaicità della giungla metropolitana, entro cui lattore tenta di riportare alcuni elementi onirici alla Jacques Tati, non riuscendovi. Nelle macchiette dei due antieroi, infatti, “uomini ordinari” calati in un paesaggio neoindustriale, reinterpretato in chiave comico-surreale (la stessa che nel 1955 caratterizzerà anche lunico film di Fo: Lo svitato di Lizzani), si descrive un universo impiegatizio (e solo in parte operaio), dove si muovono dipendenti fantozzianamente zelanti e imbranati, commendatori dal piglio grottescamente marziale, puntigliose segreterie e dattilografe in cerca di riscatto sociale (che Franca Valeri incarnerà di lì a poco in modo magistrale, già a partire dai primi esperimenti di Carnet de notes, 1951-1952, con Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci). Il luogo pubblico irrompe nella drammaturgia teatrale sostituendosi al privato. Lambientazione diviene, quindi, un altro elemento sensibile per un confronto tra cinema e teatro dellepoca, ossia tra la realtà della Storia che entra nel cinema e quella che entra nel – o resta fuori dal – teatro. A differenza della scrittura per il cinema, infatti, la scrittura scenica deve attendere molto, prima che il mondo esterno faccia ingresso nella rappresentazione teatrale, arenata su una geografia di interni, e su una cesura netta tra spazio pubblico e privato. Ciò nondimeno, sin dai primi anni del Novecento «numerose riflessioni teoriche, soprattutto in area tedesca, avevano individuato nel Teatro di Varietà lespressione più conforme allo stato psicologico del cittadino moderno, flâneur e nottivago», molto simile al più tardo «uomo in frack», aristocratico decaduto e trasfigurato in intellettuale dandy, cantato da Domenico Modugno alla metà degli anni Cinquanta, il quale – sia detto per inciso – nella stagione teatrale 1955-1956 reciterà al Piccolo di Milano in Italia, sabato sera di Contarello e ne Il diluvio di Betti, per la regia di Parenti e di Jacques Lecoq, proprio allinterno di quel teatro-cronaca-cabaret di cui parlerò tra poco. Il dibattito dellepoca in merito ad un confronto scena teatrale/paesaggio cinematografico è povero, ma qua e là è possibile rintracciare testimonianze interessanti, come ad esempio sulla rivista «Scenario», dove sul numero 4 (1940) Guido Ballo cita, tra gli altri, gli esperimenti della Scuola di scenografia di Brera – dove peraltro Fo studia e si forma – come prove di una scena interpretativa sintetica che, pur ricercando ladesione al dramma, evita il carattere neorealista. Malgrado ciò, lidea di unambientazione en plein air, ovvero di una scena urbana, sulla scia certamente delle opere brechtiane, prende piede anche nel teatro nostrano. Negli esperimenti radiofonici di Fo e Parenti è la scenografia verbale in primis a costruire mondi e panorami urbani che attuano un rovesciamento dei canoni drammatici tradizionali, i cui codici performativi trovano nelle forme e nei linguaggi alternativi del cabaret luoghi e mezzi attraverso cui sperimentare tali novità stilistiche. Un mutamento scenico che corrisponde ad un mutamento di orizzonti culturali. Peraltro, se è vero che il cinema neorealista nasce, in linea teorica, dalla possibilità di situare storie umane nei paesaggi e, sul versante tecnico, dalluscita della troupe dai teatri di posa per immergersi (e disperdersi) nella realtà geografica e sociale, in un panorama vivo e brulicante di natura e umanità, è altrettanto rilevante come certo teatro comico – di cui Fo è il rappresentante più illustre – nasca dallincontro tra una tradizione orale, uninvenzione artistica e lidea di un paesaggio suburbano, reale (i paesini del lungo lago, la periferia) e ideale (il luogo dellinfanzia perduta) che rivive nei paradossi degli antieroi protagonisti delle vicende narrate, fuori dallasfissia di ibseniani o pirandelliani salotti borghesi. In un periodo contraddistinto dal declino dellautore e dallascesa del regista-demiurgo, Fo con Poer nano percorre la strada contraria dellattore e del canovaccio, privo di dimensione letteraria, con uno schema chiuso ma a montaggio aperto, dove si sviluppano monologhi plurivocali paradossali e iperbolici, tematicamente incentrati sul rovesciamento provocatorio, sulla demistificazione dei valori, sulla smentita dei luoghi comuni e stilisticamente costruiti sulluso di intercalari, di espressioni del dialetto lombardo, per «dar voce ad una tradizione che non era mai stata scritta, e per cui era necessario reinventare una scrittura», un genere linguistico, tra rivista, sceneggiatura cinematografica e farsa teatrale. Poer nano, “povero cocco”, ossia povero cristo, è «un intercalare affettuoso», un epiteto che accompagna tutti gli antieroi di queste fantasmagoriche favole per adulti, la cui morale è la ribellione alla morale convenzionale. Così nella storia di Caino ed Abele, che apre il libro, il personaggio di Caino non rappresenta più il simbolo per eccellenza del cattivo. È piuttosto un povero cristo nato brutto, un po locco e coi piedi piatti, continuamente messo a confronto dalla gente del paese con «LAbele», bello, bravo e buono: «ma come fa un fratello così bello con gli occhi azzurri e i riccioli doro averci un fratello in sci stupid e cunt i pie piatt come el Caino? E lui sentiva e ci veniva il magone». Il linguaggio infantile, fiabesco contribuisce a connotare una visione “dal basso”. Come afferma Calvino in riferimento a Pin, parafrasando: la visione del bambino è per forza una visione “dal basso”, un trasfigurare la realtà secondo le regole della fantasia e del gioco; oppure, in riferimento alluso di una lingua mista tra dialettale e italiana, afferma: il bisogno stilistico è quello di tenersi più in basso dei fatti. Un esperimento che, come è stato detto, Fo tenterà anche col personaggio cinematografico dello “svitato”, un fool, un moderno Zanni che si muove con una pantomima stralunata in un paesaggio urbano in cui fellinianamente «gli elementi più comuni della vita moderna, industriale e meccanizzata, come le gru, i gasometri, i bagliori notturni delle fonderie, muovono la sua immaginazione, lo incantano come fossero giostre o lune». Durante la tournée in giro per lItalia con lamico Parenti, Fo entra in contatto con attori comici emergenti quali Fabrizi, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, ma anche il grande Totò e con il mondo della rivista di costume, dalla quale Fo e Parenti cercano di discostarsi, contravvenendo alle raccomandazioni di Giulio Andreotti, sottosegretario di De Gasperi, che «aveva invitato senza mezzi termini gli uomini di spettacolo ad usare gambe di belle ragazze piuttosto che pensionati poveri come lUmberto D. di De Sica». Già a partire dai primi anni Quaranta, quando ancora le ambizioni attoriali sembrano di là da venire, Fo a Milano si confronta con artisti e intellettuali tra cui anche Vittorio De Sica, Carlo Lizzani, Federico Fellini, Elio Vittorini: il Neorealismo è un territorio che Fo e Parenti naturalmente conoscono e sul quale discutono. Tutti ci si trovava al Brera, eravamo tutti per un cambiamento generale, in arte come in politica, e non davamo retta al partito, che ci diceva di fare gli artisti e di rimanere al nostro posto. Oggi è impensabile cosa fosse Milano allora e come un pittore, quale io volevo essere, si sentiva coinvolto da tutte le forme di espressione, dai racconti sul Politecnico ai film neorealisti: non pensavo al teatro, ma il teatro ci riguardava un po tutti. Nellanno in cui Fo gira il già citato fallimentare film Lo svitato con Lizzani, 1955, assieme a Franca Rame e allo stesso Parenti, questultimo compie in teatro un tentativo avanguardistico, purtroppo destinato anchesso a fallire: il Teatro Cronaca. Scrive Morandini sul primo spettacolo del Teatro Cronaca di Parenti, Italia, sabato sera, per la regia di Parenti-Lecoq Al Piccolo Teatro cè adesso la compagnia di prosa del Teatro-cronaca di Franco Parenti. […] Che cosa è il teatro se non cronaca della nostra vita, racconto che ripete la nostra realtà palese, scoperta di quel che succede dentro di noi, indagine su quel che succede intorno a noi? […] Italia, sabato sera: non commedia, ma caffè-concerto drammatico. La sua sperimentazione condivide con il Neorealismo – se è lecito un parallelismo, con le debite proporzioni e le attenzioni del caso – alcuni obiettivi e principi di base. In quella sorta di “manifesto”, pubblicato su «Sipario» Parenti parla di: interesse per la ricerca anche fine a sé stessa, svincolata dal prodotto e dal processo produttivo; volontà di far vivere storie e personaggi suggeriti dallattualità, con un intreccio di cronaca e finzione; dunque, ampliamento della partecipazione del pubblico attraverso un repertorio “moderno”, con argomenti vicini alla vita quotidiana (la politica, il denaro, i rapporti di classe, la giustizia); inversione dei ruoli attoriali rispetto alla consuetudine; ricercato antidivismo. Proprio sullaspetto dellinversione dei ruoli, interessante è lesempio di uno sketch di Parenti-Fo dal titolo parodico Arnaldo, orso bruno spavaldo (1952), contenuto allinterno di Chicchirichì, dove è inscenato con intento metateatrale uno spettacolo di rivista dove lunico elemento mancante è lattore comico. A rivestire tale ruolo viene proposto Memo Benassi, accolto con delle perplessità: «Ma se è un tragico, un attore drammatico», a cui la voce di Fo controbatte: «Appunto. Questo è quello che vuole il pubblico. Infatti i maggiori successi dei nostri comici attualmente, quali sono stati? Il cappotto, Guardie e ladri, Lora della verità. Tutte cose che facevano piangere. Dunque: Memo Benassi…», «Ci farà ridere!». A tutto ciò si aggiunge la fiducia in una dimensione simbolica, che non è affatto in contraddizione con linteresse per la realtà sociale e per la cronaca. Cè infatti una precisa volontà di inventare nuove modalità narrative e performative, di seguire sentieri sino ad allora inesplorati, che vadano a rintracciare realtà e tradizioni dimenticate, trasfigurate poi in forme allegoriche secondo un rapporto di interferenza feconda fra testimonianza e affabulazione, cronaca e mito. Un procedimento creativo, questo, caro non solo a Franco Parenti, ma anche e soprattutto a Dario Fo, il quale, già a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta – come è stato detto – pur non praticando una dimensione scrittoria di carattere letterario, ma dedicandosi ad una scrittura scenica “mobile” – può essere collocato ai margini di quel gruppo di opere della narrativa italiana, tra le quali Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino (assieme a Cronache di poveri amanti di Pratolini, Cristo si è fermato ad Eboli di Levi, Uomini e no e Il Sempione strizza locchio al Frejus di Vittorini, La casa in collina di Pavese, Dentro mi è nato luomo di Del Boca), che, connessi alla testimonianza e alla memorialistica della Resistenza e della lotta antifascista (nonché dei drammi della guerra mondiale e della questione meridionale), «pongono in primo piano il mondo contadino e il popolo dei quartieri (disoccupati, artigiani e piccola borghesia), non la realtà operaia delle fabbriche». Fo, infatti, con il Poer nano attinge alla realtà rurale e ai modi con cui tale materialità trasforma le storie della tradizione culturale secondo una visione rabelesiana, dove le spinte ad un rinnovato realismo – soggettivo piuttosto che oggettivo – e il gusto per la rappresentazione concreta dei personaggi si coniugano con istanze fiabesche e mitico-simboliche. Tali istanze rivelano – come già la narrativa neorealista – «interessi etnologici e antropologici talora mediati dallinfluenza di Jung». In tali “fiabe”, narrate con una lingua per metà dialettale ed entro una struttura semantico-stilistica naïf, dove il rovesciamento comico non indulge mai ad un comico-sentimentale, il dolore del mondo è tuttavia contemplato e racchiuso. Il leggendario luogo delle origini, incarnato dalle langhe di Pavese, dalla Lucania di Levi o dalla Liguria di Calvino, non è diverso da quello simboleggiato, per Fo, dai paesini che si affacciano sul lago Maggiore, pur tuttavia senza indulgere allautocelebrazione o ad una mera oleografia mitizzante. Daltro canto, esiste una forte continuità tra questi luoghi simbolici dove è possibile immaginare che viva un “novello Adamo” – ma anche un Caino intoccabile, per dirla con lattore-autore di Sangiano – e i territori leggendari dellAmerica anni Trenta, di un far west rappresentato con toni lirico-allegorici. Dunque, anche quando il discorso mitico affronta il tema della Resistenza, esso diviene riferimento realistico inserito, però, allinterno di una struttura fiabesca e allegorica (si pensi a Grande pantomima con pupazzi bianchi e neri del 1968), così come lesperienza dei partigiani è usata come riferimento metaforico o simbolico nel confronto tra lesperienza italiana e quella di altre nazioni, ad esempio la Palestina, in Feydain (Dario Fo, 1972). La guerra, la Resistenza, la realtà sociale postbellica, i partigiani, la questione meridionale e contadina rappresentano senzombra di dubbio eredità tematiche e intellettuali con le quali chi fa letteratura, teatro, arte in quegli anni deve necessariamente confrontarsi. Anche in teatro, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, comincia ad acquisire rilevanza il valore paradigmatico dellesperienza personale – di autore e di spettatore – in una dimensione di condivisione delle esperienze di via e non solo darte. Un discorso che negli anni Sessanta troverà nuova linfa vitale con esiti di maggior potenza rivoluzionaria. Il rinnovamento, che però sin da allora è auspicato, sindirizza non soltanto alle tematiche, quanto alle strutture, al linguaggio, allintertestualità e alla pluridimensionalità comunicativa. Listanza etica e civile determina i modi del racconto e del raccontare; un racconto che letto a distanza critica rivela una tensione dinamica che è peraltro una via di conciliazione tra i due estremi del dibattito che scaturisce in seno al Neorealismo negli anni Cinquanta, in un quadro storico e culturale tuttaltro che omogeneo: da un lato la cronaca pura, dallaltro la narrativa – o, direi meglio, la narrazione. Un incontro fortunato tra questi due poli, nel teatro comico contemporaneo, dimpegno civile, è rappresentato proprio dalle “riviste di cervello” dei Dritti – Franco Parenti, Dario Fo e Giustino Durano –: Il dito nellocchio e I sani da legare, rispettivamente nelle stagioni 1951-1952 e 1953-1954, che costituiscono esperienze di grande rilievo sul fronte del rinnovamento teatrale, non solo di una scena satirica e comico-politica, ma dello spettacolo tout court, pur nella non completa consapevolezza che ne ebbero allepoca i protagonisti: come quando, spinti da entusiasmo giovanile e da unelementare ansia di rinnovamento e di riscatto, non si è però del tutto coscienti dei motivi per cui ci si è gettati nella mischia. Del resto – per giungere alfine al parallelismo calviniano suggerito dal titolo – la confusione e lincertezza del Dritto, il capo partigiano di Pin, caratterizza anche i Dritti Pa-Du-Fo, per i quali lantirivista, la controinformazione, lo spettacolo-inchiesta, l“arte povera”, la ricerca dellimprovvisazione e della spontaneità attraverso lartificio non incarnano alcun concetto precostituito né un fenomeno o una stagione particolare, realista, neorealista o «neoespressionista», come è stata definita provocatoriamente da Calvino nella già citata Prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno. Linsegnamento, semplice e profondo, che gli antidivi Parenti e Fo ci hanno lasciato del loro impegno artistico ed umano, in questi anni difficili e al contempo promettenti, è che non si possa praticare il mestiere di autore e di attore senza ancorarlo ad un sistema forte e saldo di valori morali, senza considerare il teatro una presenza attiva nella Storia.
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