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Valeria G.A. Tavazzi

Carlo Goldoni dal San Samuele al “Teatro comico”


Torino, Accademia University Press, 2014, 252 pp., euro 24,00
ISBN 978-88-97523-91-8
                                 

Tra i giovani ricercatori che si occupano di letteratura italiana del Settecento Valeria Tavazzi è certamente una delle più preparate e prolifiche. Tra i suoi studi di maggior spessore si contano un saggio sui romanzi teatrali di Antonio Piazza e Pietro Chiari, e l’edizione critica della Commediante in fortuna dello stesso abate bresciano. Il suo ultimo lavoro risale invece la china degli anni per indagare il periodo più oscuro della produzione letteraria di Carlo Goldoni, quello al servizio dei teatri Grimani e antecedente la riforma. Tramite uno scavo dei testi attento e libero da pregiudizi legati al fortunato destino del veneziano, Valeria Tavazzi rivaluta e approfondisce l’indagine degli esordi goldoniani in cui ebbero un peso determinante «l’esperienza di una comicità bassa e parodica, mutuata dal mondo degli attori e ben presto ripudiata, nonché il contatto con autori poco noti che potrebbero avere aiutato il giovane Goldoni a prendere coscienza del ruolo dello scrittore per la scena» (p. 5).

 

Tra questi ultimi si annoverano Antonio Gori e Domenico Lalli, drammaturghi stipendiati a loro volta dalla famiglia Grimani, sulla produzione dei quali l’autrice del saggio si sofferma nel primo capitolo. L’analisi delle strutture tematiche e linguistiche degli intermezzi firmati da Gori, messa a confronto con quella degli omologhi componimenti goldoniani, induce la studiosa a ipotizzare un sistema di prestiti reciproci tra i due colleghi. Svolto in questi termini, il riesame della produzione comico-musicale del San Samuele negli anni 1734-1736 impone di ridimensionare la portata innovativa del contributo goldoniano al genere dell’intermezzo, e di restituire dignità letteraria al lavoro di Gori. Come già aveva sottolineato Piermario Vescovo, infatti, nella produzione di quest’ultimo si nota «una sostanziale precedenza nella scoperta o valorizzazione dell’ambientazione e caratterizzazione veneziana del genere».[1]

 

Alla luce di queste considerazioni appare quindi riduttivo credere a un’ideale evoluzione della struttura drammaturgica dell’intermezzo verso quella più elaborata e complessa dell’opera comica, lungo il cui percorso Gori e Goldoni costituirebbero tappe successive e affatto indipendenti del medesimo percorso “evolutivo”. Al contrario risulta più utile rimescolare le carte per individuare piuttosto nel confronto tra i due poeti la scintilla capace di accenderne l’inventiva. In questa prospettiva il teatro San Samuele, con i suoi comici, è la fucina da cui viene sfornato un prodotto modellato secondo una nuova e più raffinata regola dell’Arte. A questo proposito Valeria Tavazzi non manca di riconoscere che Momoletta, il più lungo e articolato componimento di Antonio Gori, nonché uno degli ultimi per i comici di Giuseppe Imer, «conserva […] tracce di una drammaturgia veneziana già abbastanza matura, che accosta all’elaborazione dei travestimenti e all’espediente metateatrale del mondo nuovo, scenette domestiche che sembrano farci pregustare addirittura il Goldoni maggiore» (p. 25). Nello stesso e in altri intermezzi non mancano neanche i riferimenti alla cultura “alta”, una non scontata versatilità linguistica e un’attenzione alle didascalie che prova una funzionale conoscenza della pratica scenica da parte dell’autore.

 

Come riconosce giustamente Giulio Ferroni nella sua Presentazione, lo studio di Valeria Tavazzi ha il grande merito di chiarire come «il formarsi e lo svilupparsi della comicità goldoniana scaturisca dalla concretezza della vita teatrale veneziana, dagli stimoli continui e contrastanti dati da quel costante scambio, dialogo, contrasto con esperienze contemporanee, da quel fitto circolare di testi e di spettacoli, dalla reattività di autori, compagnie, pubblico, dallo stesso incontrarsi ed entrar in frizione di generi teatrali diversi» (p. VIII). In questo contesto le recriminazioni di Goldoni circa il presunto furto del suo primo intermezzo compiuto da Gori (si tratta evidentemente della Cantatrice che sarebbe stato rimodellato col titolo di Pelarina) si stagliano nitidamente sullo sfondo della missione teleologica condotta a posteriori dal veneziano nelle sue Memorie, tanto francesi che italiane. Ciò che Goldoni rivendica non è davvero la paternità dell’intermezzo, quanto il ruolo di iniziatore di un genere in cui riconosce i prodromi della commedia di carattere e del quale desidera pertanto mostrarsi indiscusso campione.

 

Come per Gori, Valeria Tavazzi propone poi un riesame delle opere dello scrittore napoletano Domenico Lalli e delle descrizioni che di lui offre Goldoni nelle memorie e nella dedica dell’Aristide. Ne risulta un sistema dialogico che, opponendo le Rime lalliane alle celebri righe dell’avvocato, illustra i controversi rapporti tra i due direttori del San Giovanni Grisostomo. In particolare, dietro le amichevoli attestazioni di stima e amicizia, Goldoni sembra covare contro il collega un desiderio di rivalsa. Risultato di accordi economici sugli emolumenti derivanti dalle dediche che favorivano Lalli a scapito del più giovane scrittore, la “ritorsione” si sarebbe manifestata in un mirato occultamento dei debiti intellettuali contratti dall’avvocato nei confronti del suo predecessore. L’indagine è condotta dall’autrice del saggio tramite una grande attenzione alle sfumature presenti nelle fonti, e serve a ribadire l’appartenenza del veneziano a un sistema produttivo originale, ma di matrice non individuale.

 

Il terzo capitolo è dedicato dall’autrice alle connessioni tra i drammi musicali confezionati da Goldoni per i comici del teatro San Samuele e i coevi componimenti satirici rappresentati negli altri teatri di prosa della Serenissima. L’esame del «dramma eroicomico per musica» Aristide illustra ancora una volta la prossimità di Goldoni rispetto a un genere satirico ampiamente frequentato dalle compagnie dell’Arte nel primo Settecento, ma evidenzia allo stesso tempo una prima vera presa di distanza dell’avvocato dalla loro comicità più bassa. Il gioco di rimandi all’opera seria che distingue il testo non sembra avere infatti funzione parodica, ma si fonda bensì su slittamenti esigui di temi o scambi di personaggi che alludono ai modelli seri senza deriderli, limitando le scene ridicole a pochi scambi di battute tra i servi. Differentemente da Aristide, che sembra avere più somiglianze con l’opera musicale anteriore alla riforma zeniana, Lugrezia romana in Costantinopoli mostra una sostanziale conformità con le parodie primosettecentesche, caratterizzate da una comicità greve e scurrile. Da questo doppio confronto emerge un Goldoni ancora lontano dagli ideali della riforma promulgata a partire dagli anni Cinquanta del secolo XVIII, diviso tra ricerca di una comicità “nobile” e parodia spicciola (del genere serio che sta peraltro parallelamente frequentando).

 

Nell’ultima tappa del suo studio, Valeria Tavazzi mette sotto esame Il teatro comico, assurto dalla critica a manifesto della riforma goldoniana. La studiosa riconsidera le funzioni programmatiche del testo in virtù dei rapporti vigenti tra il commediografo, il capocomico Girolamo Medebach, il rivale Pietro Chiari e altri autori di teatro attivi a quel tempo. Ne risulta una grande complessità di piani e relazioni con la produzione letteraria precedente e contemporanea, che aiutano a riquadrare debiti e obiettivi della commedia ed evidenziano la vena militante di un Goldoni impegnato su più fronti: le gare teatrali con l’abate bresciano; il confronto con il capocomico sulle responsabilità in compagnia prima e sui diritti editoriali poi; il rapporto con testi e rappresentazioni coevi dietro il cui carattere metateatrale si svelano compiti maieutici; il riequilibrio dei rapporti di forza tra teatro musicale e teatro di prosa.

 

Il libro di Valeria Tavazzi costituisce un tassello importante nello studio di Goldoni e del teatro veneziano del primo Settecento in genere. Il suo merito maggiore è quello di aver recuperato e dato un posto alla prima produzione goldoniana, quella meno o nient’affatto nota al pubblico e ancora poco chiarita dagli studi scientifici, dandole un posto nella ragnatela del repertorio teatrale comico e operistico del primo Settecento, prima che la riforma si delineasse e desse i suoi frutti.



[1] P. Vescovo, Carlo Goldoni: la meccanica e il vero, in I. Crotti-P. Vescovo-R. Ricorda, Il Mondo vivo. Aspetti del romanzo, del teatro e del giornalismo nel Settecento italiano, Padova, Il Poligrafo, 2001, pp. 55-152: 67.



di Lorenzo Galletti


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