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Valeria G. A. Tavazzi

Il romanzo in gara
Echi delle polemiche teatrali nella narrativa di Pietro Chiari e Antonio Piazza
Prefazione di Piermario Vescovo

Roma, Bulzoni, 2010, pp. 222, € 24,00
ISBN 978-88-7870-527-2

Le celeberrime gare teatrali tra Chiari e Goldoni nella Venezia di metà Settecento sono tutt’altro che un capitolo chiuso, ormai acquisito della moderna storiografia. L’orizzonte agonistico che quelle gare dischiudono – orizzonte multisfaccettato, capzioso e contraddittorio – è ancora in gran parte da sviscerare. Dopo «Parrebbe un romanzo» di Laura Riccò, un apporto decisivo in questa direzione lo offre il saggio di Valeria Tavazzi, edito da Bulzoni, nel quale la studiosa analizza l’universo teatrale della Serenissima, al tempo della “riforma”, partendo da una prospettiva originale: il romanzo.   

 

Genere neo-nato in Italia, dai confini ancora incerti e dalla materia magmatica, il romanzo è a questa altezza cronologica una fucina di riflessioni autoriali sul presente, un tritatutto di umori e suggestioni provenienti dall’esterno, una tribuna dove respingere critiche (ad personam) e inoltrarne di nuove; dove perpetrare vendette e dispiegare autodifese. In virtù del suo carattere “militante”, il nuovo genere letterario si pone ai nostri occhi come strumento essenziale per ricostruire (e capire) la scena teatrale dell’epoca.

 

I romanzi dei letterati e drammaturghi Pietro Chiari e Antonio Piazza sono in questa prospettiva una preziosa miniera. Il loro tessuto narrativo, fatto di trame avventurose, lascia trapelare particolari apparentemente insignificanti che celano però riferimenti satirici a persone ed eventi reali, ritrattini caricaturali lasciati anonimi per convenienza, opinioni fugaci che rivelano precise prese di posizione in ambito letterario. In breve, messaggi “subliminali” destinati all’accorto pubblico contemporaneo.

 

Proficuo, dunque, il lavoro svolto da Tavazzi, orientato all’intercettazione di questo sostrato di allusività e alla sua ricomposizione ragionata nell’ambito di un mosaico complesso. L’attento lavoro esegetico, basato sul confronto di fonti letterarie di vario tipo (oltre ai romanzi, i pamphlets, le poesie d’occasione, gli articoli di giornale, le prefazioni ai testi teatrali), ha permesso di dare volto e nome a compagnie e personaggi bersagliati di volta in volta dalla satira dei due menzionati romanzieri, nonché di gettare nuova luce su questioni di capitale importanza per la storia del teatro. Si pensi alla già citata riforma teatrale, o alle polemiche editoriali (tra Bettinelli e Goldoni, per esempio), o, infine, ai tradizionali giudizi storiografici sullo stesso Goldoni, su Chiari e su Gozzi

 

Ricco di spunti l’approfondimento dei romanzi chiariani, cui è dedicata tutta la prima parte del volume. Qualche esempio. Ne La filosofessa italiana (1753) è meritevole d’attenzione la proposta, ironicamente filtrata dall’autore, di adattare le commedie classiche di Aristofane, Plauto e Terenzio a canovacci per la recitazione all’improvviso. Una drammaturgia alternativa alla riforma proposta da certe frange nobiliari dell’epoca, invocata nel romanzo dallo stolto Marchese di Mondepin, probabile controfigura di Luigi Pindemonte, futuro collaboratore, guarda caso, della troupe di Antonio Sacchi (come documentato da Gozzi). Satira circostanziata, dunque, con destinatario preciso. 

 

Ancora. In un altro romanzo, La commediante in fortuna (1755), Chiari indica in Marbele, alias Girolamo Medebach, «il vero ed unico riformatore del teatro italiano», attribuendo al grande capocomico «il ruolo che da anni [l’abate bresciano] cerca di contendere a Goldoni». Un’operazione controproducente solo in apparenza: invalidando il suo ruolo attivo nella riforma, Chiari invalida indirettamente anche quello del suo acerrimo e più diretto rivale.    

 

Parimenti notevoli gli esiti della (ri)lettura dei romanzi di Piazza. In Giulietta (1771), ad esempio, il letterato veneziano, chiarista pentito, rivendica a Goldoni la palma di riformatore. Il celebre brano nel quale egli descrive, a distanza, e in qualità di testimone oculare, le già nominate gare teatrali, è stato troppo a lungo considerato un documento attendibile di come andarono davvero le cose. Negli anni Settanta del secolo, quando Piazza scrive, l’eco di quelle gare è in realtà tutt’altro che sopita, e la partigianeria ancora tangibile. La versione piazziana si rivela insomma poco obiettiva. Come la stessa Tavazzi suggerisce, sono da riconsiderare in quest’ottica «numerosi aspetti della scena veneziana – le evoluzioni della commedia dell’arte, l’appropriazione chiariana della riforma e la cristallizzazione delle gare – considerati finora per lo più attraverso il monumento che Goldoni stesso ha elaborato con scaltrita attenzione propagandistica» (p. 200). Nei Mémoires e non solo. 

 

 

di Gianluca Stefani


La copertina

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