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Autori vari

Michele Sambin. Performance tra musica, pittura e video

A cura di Sandra Lischi e Lisa Parolo

Cleup, Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova, 2014, 264 pp., euro 30.00
ISBN 9788867872398

From left to right non è solo il titolo di una videoinstallazione musicale dell’artista e performer Michele Sambin, ma anche un invito a seguire, leggendo la prima monografia su di lui curata da Sandra Lischi e Lisa Parolo, il filo rosso del rigore creativo sotteso all’eclettismo che permea l’intero corpus delle sue opere. Il libro tesse una conversazione continua tra chi scrive, l’artista e le sue creazioni, tre linee che, senza intersecarsi, vanno avanti a interrogare parallelamente i materiali di volta in volta presi in esame: un universo di informazioni contenute in altri libri, archivi multimediali, opere di altri artisti e di altri tempi ancora recuperabili o idee conservate nella memoria del performer, l’unico a poterne dare testimonianza. In questo senso acquista rilevanza scientifica la corposa intervista gestita da Lisa Parolo e Michele Sambin, le cui immagini accuratamente selezionate corredano fin dalle prime pagine l’intero testo.

La monografia prende le mosse dalla memoria dell’artista e all’importanza di questa fa ritorno alla fine quando, di nuovo Lisa Parolo, tira le somme di un lungo e complesso lavoro di archiviazione che si è necessariamente avvalso, oltre che di una dettagliata documentazione, anche del contributo dell’artista stesso, al fine di ricostruire il giusto contesto espositivo per ognuna delle diverse tipologie di opere catalogate e consegnate alla fruizione del pubblico di oggi e di domani.

A mettere in relazione il lavoro di Sambin con il contesto internazionale interviene il contributo di Sandra Lischi che traccia un quadro delle sperimentazioni in ambito videoartistico tra gli anni Settanta e Ottanta, evidenziando le caratteristiche – indagate nello stesso periodo da artisti quali Nam June Paik, Steina e Woody Vasulka, Bill Viola, Robert Cahen – che legano l’immagine video, più che alla fotografia e al cinema, al suono e alla musica proprio in virtù di quelle connotazioni tecniche che consentono al nuovo medium di far scaturire da una stessa sorgente immagini e suoni, eliminando quindi la necessità di immobilizzarli nel tempo e di rielaborarli successivamente. L’opportunità di riprendere e trasmettere in simultanea permette a Sambin di riflettere nelle sue opere sull’impossibilità di conservare il tempo e quindi anche sull’ambiguità del potersi riconoscere nella propria immagine riflessa. Viene messo in evidenza inoltre come, grazie alla tecnica del videoloop, opere video di Sambin quali Il tempo consuma (1979), VTR&I (1978) e soprattutto Sax (1979) muovano già in qualche modo verso il teatro in quanto cercano di combinare fra loro temporalità differenti: quella della trasmissione in diretta, della differita e dell’esibizione dal vivo.

A Silvia Bordini è invece affidata una ricognizione dei luoghi, istituzionali e non, dove gli artisti hanno potuto sperimentare i nuovi linguaggi. Se Bordini unisce alla descrizione degli ambienti artistici frequentati da Sambin un ampio ragguaglio sui luoghi della sperimentazione produttiva nel campo della videoarte in Italia e spazia da Roma a Bologna e da Acireale a Milano, Lisa Parolo si concentra invece sui luoghi della documentazione e della fruizione dei video tra Venezia e Padova. In aggiunta alla ricca documentazione fornita dal saggio sul contesto storico artistico in cui egli operava, Michele Sambin sceglie di affiancare al testo immagini che riproducono il catalogo della sua prima mostra personale (Padova, 1972), dal quale emerge una costante della sua ricerca: la centralità della riflessione sull’autonomia indispensabile all’opera d’arte affinché possa farsi mezzo di relazione.

Riccardo Caldura indaga l’insieme delle opere grafiche dell’artista, costituito prevalentemente da disegni, schizzi, acquerelli, chine che portano il segno di idee e progetti legati tanto alla ricerca video quanto, poi, all’elaborazione di schemi o vere e proprie partiture sceniche per il teatro. Interessante in particolare risulta il rapporto tra forma e suono che emerge dagli esempi della produzione grafica di Sambin posti ad accompagnare lo scritto, non solo laddove i lavori sono ispirati e dedicati a celebri musicisti o a precisi strumenti musicali, ma soprattutto nell’ambito delle illustrazioni per l’infanzia, dove il segno conserva tracce della continua ricerca tra gesto/movimento e musicalità, o negli studi sul rapporto tra tempo e spazio come i Disegni spartito. Caldura colloca in un insieme a parte e più specifico – definito da Sambin stesso come “pittura musicale” – quelle opere in cui la fusione tra musica e suono è perseguita ancor più scrupolosamente, e che portò tra gli anni Ottanta e Novanta alle raffinate soluzioni grafico-pittoriche delle Partiture musicali e dei Disegni astratti, in cui le immagini sembrano sfuggire, come potrebbero fare effettivamente solo su uno schermo, all’immobilità visiva e temporale.

Il fondamentale passaggio dalla partitura visiva alla sperimentazione in ambito videoartistico viene approfondito da Roberto Calabretto, il quale analizza in parallelo sia il carattere ludico con cui l’artista si avvicina alla pratica strumentale, sia il lavoro con il gruppo musicale Arke Sinth, fondato insieme ad Alvise Vidolin e Giovanni de Poli. Al loro fianco Sambin sperimenta la musica elettronica e lavora sull’accostamento tra immagini e suono. Come si può leggere nell’intervista in apertura del libro, il suo intento è sempre stato quello di applicare le teorie ejzenstejniane sul montaggio filmico, in modo da combinare rigore tecnico ed emotività. Spetta a Bruno Di Marino portare nel suo contributo critico degli esempi che esplichino il differente rapporto di Sambin con il video – usato in modo da indagare sempre con particolare attenzione gli intervalli cronologici in relazione al flusso delle immagini – e con la pellicola, della quale si serve per indagare, secondo modalità differenti da quelle utilizzate per la realizzazione di opere su nastro magnetico, le qualità squisitamente pittoriche delle immagini in movimento.

Echi della ricerca di Sambin intorno al concetto di circuito chiuso raggiungono anche le performances in cui l’artista è coinvolto principalmente dal vivo, come in occasione della sua esibizione di fronte al pubblico della Settimana internazionale della performance (Bologna, 1-6 giugno 1977). Alla partitura video/sonora si affianca in questo caso una necessaria partitura fisica che, come segnala Francesca Gallo, influisce sull’esecuzione allontanandola dal progetto iniziale «in cui era prevista la confluenza delle diverse riprese in un unico monitor, quadripartito» (p. 143). In Autoritratto per 4 camere e 4 voci (1977) Sambin «ruota su se stesso» (p. 142), associando al movimento una precisa partitura musicale di respiri e suoni che porta in scena, oltre che in video, la sua ricerca sulla compresenza di differenti e sfasati punti di vista e di ascolto. Nella video performance di poco precedente Playing in 4, 8, 12… (1977), in cui viene sperimentato l’uso del mixer video, l’artista si appropria della tecnica del contrappunto musicale e ne dà una versione visiva che contribuisce, come il procedimento del videoloop, a manipolare gli strumenti – musicali o tecnologici – per «trasformare il monologo in dialogo» (p. 145).

Una installazione interattiva del 1978, della quale non sono rimasti altri documenti che i disegni preparatori, viene presa in esame da Andreina Di Brino, che analizza non solo il passaggio dal segno tracciato su carta all’installazione, ma anche le riflessioni sul punto di vista dello spettatore, chiamato a confrontarsi attivamente con l’immagine proposta dal monitor. In Ripercorrersi (1978) Sambin rompe il rapporto privilegiato e intimo tra ciò che viene ripreso e chi osserva, invertendo radicalmente i ruoli: quella che sul disegno viene rappresentata ancora come una platea, si rivela agli occhi della studiosa come il nuovo centro della scena. In quest’ottica le annotazioni di Sambin in margine al disegno possono essere a pieno diritto definite drammaturgiche: l’artista non si limita infatti a descrivere come sono collocati gli oggetti o le persone nello spazio, ma come i diversi elementi occupino posti ben precisi per stimolare nello spettatore/attore delle reazioni, improvvisate e libere, ma dirette dalla partitura scenica composta da Sambin.

A quest’ultima riflessione si collega il contributo di Cristina Grazioli che, a partire dai primi oggetti funzionali costruiti dall’artista, arriva a rintracciare nel materiale scenico ideato per gli spettacoli del TAM Teatromusica un’attenzione costante alla qualità estetica degli oggetti, ai quali è sempre demandato il compito di attivare un vero e proprio dialogo con lo spettatore. Il saggio procede su questa linea accostando l’opera video a quella teatrale e mettendo in evidenza l’importanza dei dispositivi illuminotecnici o di proiezione che concorrono a frammentare e successivamente a ricomporre in un intero le immagini/suono previste dalla partitura dello spettacolo, fino alle recenti soluzioni della pittura di luce digitale (Light Digital Painting), grazie alla quale è il performer stesso a creare dal vivo i segni luminosi.

Prima di arrivare al già citato contributo finale di Lisa Parolo, che mette in luce quale sia oggi il compito dell’archivista, al quale è richiesto anche di costruire una documentazione sulle possibili strategie di conservazione e di «ri-creazione» (p. 224) delle opere, Anna Maria Monteverdi chiude il libro con un ricco excursus in cui riepiloga il percorso di Sambin da pioniere della video performance, che indaga il concetto di ripetizione sfruttandone tutte le potenzialità generative, fino agli ultimi racconti visuali in cui, come ha scritto Fernando Marchiori in un altro libro ricco di riflessioni (Megaloop. L'arte scenica del TAM Teatromusica, Corazzano, Titivillus, 2010), la pittura, attraverso il video, si fa scena.


Mariangela Milone


La Copertina

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