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Oltre il muro

di Giuseppe Mattia
  La zona d'interesse
Data di pubblicazione su web 26/02/2024  

A dieci anni di distanza dal fantascientifico Under the Skin (2013), il regista londinese Jonathan Glazer ha presentato a maggio 2023, in concorso a Cannes, La zona d’interesse, aggiudicandosi il Grand Prix Speciale della Giuria e il Premio FIPRESCI. Il film – co-produzione anglo-polacca – è stato inoltre candidato a ben cinque premi Oscar: miglior film, regista, sceneggiatura non originale, film internazionale e sonoro. Più che un fedele adattamento dell’omonimo romanzo (2014) del connazionale Martin Amis (incentrato su tre storie), Glazer – dopo innumerevoli ricerche sulla coesistenza tra vita e morte sul limitare del lager – attua una decisa riduzione ponendo al centro solo la famiglia di Rudolf Höß, il primo comandante del complesso concentrazionario di Auschwitz. Il titolo fa infatti riferimento alla superficie che perimetrava il campo, destinata alla permanenza dei suoi carnefici.



Una scena del film

Il titolo della pellicola, che appare in carattere bianco sullo schermo, sprofonda lentamente verso il nero prima di interminabili minuti di oscurità totale sullo schermo: è il preludio di un segmento di vita del nazista (Christian Friedel) e di sua moglie Edwig (Sandra Hüller). I due conducono una vita apparentemente idilliaca in una villa signorile, con tanto di servitù, insieme ai loro cinque figli: gite in barca, giardino pazientemente curato, picnic sulle rive di un lago, tè con le amiche per lei e lavoro d’ufficio per lui. Il focus delle vicende ruota insomma attorno ai tentativi della coppia di coniugare questioni familiari (come le scelte corrette per la crescita dei bambini) a quelle logistico-lavorative (l’ottimizzazione delle camere a gas e dei forni crematori). Tra i momenti che spezzano la loro ruotine vi sono la visita della madre di Edwig e il trasferimento temporaneo di Rudolph in Germania. Verso il finale quest’ultimo, grazie ad un flashforward, osserva il lager di Auschwitz ai giorni nostri, con alcune inservienti intente a pulire le teche in cui sono conservate le incalcolabili protesi dei deportati, le loro valigie, le loro scarpe. Sorge spontaneo un accostamento di questa scena all’imprescindibile documentario Austerlitz (2016) di Sergeï Loznitsa, nel quale il regista ucraino affrontava con amarezza le modalità di fruizione dei visitatori nello spazio museale del campo di concentramento tedesco di Sachsenhause.



Una scena del film

Un aspetto predominante de La zona d’interesse è senz’altro legato alle riprese: girato nel 2021 proprio nei pressi di Auschwitz, Glazer e il direttore della fotografia polacco Łukasz Żal (due volte candidato all’Oscar, nel 2015 per Ida e nel 2019 per Cold War) scelgono di posizionare una decina di macchine da presa sul set (ricreato ad hoc dallo scenografo Chris Oddy), di cui solo alcune visibili agli attori. Dunque, nessun operatore, nessuna attrezzatura, nessun primo piano, con tutto il girato supervisionato dal regista dall’interno di una roulotte, come un reality show, lasciando di fatto soli gli attori con gli oggetti, con la scenografia, con la storia, per consentirgli un più intimo avvicinamento agli eventi e allo stesso tempo dando anche allo spettatore la possibilità di immedesimarsi con i personaggi e di considerarli il più possibile “umani”. Soluzione di rara intensità, inoltre, quella di inserire delle sequenze notturne di una ragazza polacca – ripresa con camere termiche – intenta a nascondere mele e altri viveri nel campo, per i prigionieri. La giovane rappresenta un omaggio a una figura realmente esistita che Glazer ha conosciuto di persona: nel film l’attrice utilizza proprio gli abiti originali.



Una scena del film

La zona d’interesse è un progetto bicefalo: c’è un film che si vede e uno che si sente. Sul versante visivo sono pochi ma memorabili gli elementi e i segnali che suggeriscono l’abominio: dalla cenere nel fiume ai denti d’oro usati dai bambini come giocattoli, dalla fuga della madre di Edwig dopo aver compreso tutto, fino alla scelta dei vestiti, da parte della padrona di casa, appartenuti a prigioniere che mai più verranno a reclamarli. Il passato di umili origini della donna e la sua voglia di rivalsa erompono quando, con nonchalance, dichiara: «Forse Esther Silberman è laggiù… quella per cui facevo le pulizie». Le emozioni che emergono durante la visione del film risultano esigue, a riprova dell’intenzione dell’autore classe 1965 di restituire sullo schermo freddezza e scientificità alle immagini pur senza leziosità. Questa tensione sempre sottotraccia è influenzata anche da un mancato sviluppo dei personaggi, che appaiono purtroppo bidimensionali.

Sul versante legato al suono non si parla di una colonna sonora o di un tema che ricorre durante il film quanto piuttosto di un sordo basso continuo frutto del certosino lavoro dell’audio designer Johnnie Burn e della compositrice Mica Levi. Una vera e propria sperimentazione, un tentativo di sintetizzare il fragore dell’inferno attraverso un insieme luculliano di perturbazioni sonore e scorci di atrocità, corrispondenti a tutto ciò che sentono quotidianamente gli abitanti della villa: rumori di treni in arrivo, voci incomprensibili, spari, latrati, urla sia di ebrei sia di carcerieri, minacce, frastuono dei forni. Proprio questi ultimi sono una presenza visiva costante, di giorno e di notte, sempre in attività come un occhio senza palpebre che osserva ogni cosa dall’alto. L’affidarsi al sonoro rappresenta il tentativo di rappresentare il non rappresentabile, la potenza del fuoricampo, quell’oscenità che veniva relegata già nel teatro greco antico nello spazio retroscenico (ob skenè): il male assoluto comunicato al pubblico solo, appunto, attraverso il rumore.



Una scena del film

Si ritorna dunque alla tensione iconoclastica di Claude Lanzmann che nel suo monumentale documentario Shoah (1985) rifuggiva qualsiasi immagine di repertorio. Inoltre, a differenza dell’“iconofilo” Jean-Luc Godard, Lanzmann dichiarava che, se durante le sue ricerche avesse trovato filmati girati dalle SS all’interno di una camera a gas, li avrebbe senza esitazione distrutti (mentre il regista francese dichiarò più volte che quelle eventuali registrazioni avrebbero riscattato il cinema dall’incapacità di dare forma all’indicibile). Glazer è senz’altro più vicino a Lanzmann nel rifiuto del voyeurismo per appropinquarsi invece alla comprensione, all’immedesimazione di un male banale, troppo banale. Ma dove si nasconde questo male? Lo stesso Primo Levi, nella prefazione all’autobiografia di Höß, definisce il comandante del lager «un grigio funzionario qualunque, ligio alla disciplina ed amante dell’ordine». Risulta facile pensare a questi aguzzini e additarli come creature mostruose e mettersi al riparo con la convinzione di essere diversi da loro. Il fulcro de La zona d’interesse è che queste abiette figure, all’inizio, sono semplici ragazzi con sogni e desideri come ce li abbiamo tutti. Le scelte registiche vogliono spingerci a ritrovare in loro un qualcosa di familiare, un riflesso di noi stessi.

Un film che non senza qualche tentennamento vuole farsi urgente grido d’allarme, un’opera che stenta a decollare subito dopo la visione, che necessita di decantazione per poi, inesorabilmente, deflagrare nell’intimo dello spettatore.




La zona d'interesse
cast cast & credits
 


La locandina del film



 
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