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Oltre la Serenissima
Goldoni, Napoli e la cultura meridionale
A cura di Antonia Lezza e Anna Scannapieco
Giornata di studio (9 settembre 2008 Benevento Città Spettacolo - XXIX edizione)

Napoli, Liguori, 2012, pp. 122, euro 14,00
ISBN 9788820755232

 

Questo volume  ridisegna in profondità la storia e geografia goldoniana con una fondamentale accessione erudita e documentaria, importanti correzioni di tiro critiche e aperture sulla contemporaneità cariche di suggestioni metodologiche. Finora i poli goldoniani di riferimento  erano Venezia e l’“esilio” francese, con l’interludio toscano degli anni ‘40, quello romano del 1759 e la rete dei soggiorni e delle relazioni milanesi e bolognesi. A Napoli Goldoni non c’è mai stato (come Shakespeare non è mai stato a Verona) anche se la sua biografia – al solito  più o meno romanzata – ve lo riconduce simbolicamente in svariate circostanze (a cominciare dal lieto incontro del collegiale quattordicenne in fuga con la compagnia partenopea di Florindo de’ Maccheroni sulla barca di Chioggia), ma la città resta per lui un  fondamentale appuntamento mancato, legato a concrete trattative di ingaggio e soprattutto a una specie di affinità elettiva sotterranea che illumina la preistoria e la storia del suo lavoro e ne orienta il  processo sincronico e l’irradiazione diacronica. Un’affinità elettiva che ha a che fare (prima, dopo e durante) con la sua ricezione più ampia, e con la rilevanza straordinaria di due grandi capitali teatrali (Napoli e Venezia), le cui culture spettacolari dialogano sempre a distanza in reciproca complementarietà e opposizione.

 

Goldoni e Napoli dunque: un buco nero della critica che questo libro comincia a colmare, procedendo per cerchi concentrici verso alcuni focus decisivi. La prima messa a punto riguarda la drammaturgia della napoletanità, con 12 commedie ivi ambientate fra il ’48 e il ’60, ricorrenti inserti linguistici e celeberrimi personaggi napoletani; materiali ed etichette che hanno spesso a che fare con il vecchio teatro, ma anche con eccessi e difetti (don Marzio, Lelio del Bugiardo, l’ambientazione sorrentina de L’uomo prudente) e con estraneità epicizzanti (il Cavaliere del  Campiello). Franca Angelini e Antonia Lezza, ripercorrendola, riconfermano il topos dell’alterità pretestuosa e auto censoria  che riguarda spesso il sud e il lontano visti da Venezia, che più tardi si  evolveranno verso esotismi tragicomici addirittura intercontinentali. A Napoli, o a Sorrento – ma anche a Palermo o a Livorno –  si allontanano le turbolenze, si possono ambientare eventi neri e passionali altrimenti indicibili, mentre si costruisce la mappa del consenso attraverso l’accorta strategia dei dedicatari e i consueti espedienti promozionali.

 

Ma questo riordino documentale, pure importante e di cospicue dimensioni, non basterebbe: la questione di un Goldoni “napoletano” affonda nella storia materiale dello spettacolo settecentesco,  e si lega alla circolazione fisica di attori, librettisti, musicisti, impresari che ne costruiscono insieme – in giro per un’Europa teatralmente quasi globalizzata e ancora molto italianisante – la poliedrica vitalità, e con cui Goldoni ebbe parecchio a che fare: un suo maestro importantissimo negli anni legati ai Grimani fu Domenico Lalli, al secolo Sebastiano Biancardi, librettista e truffatore  transfuga da Napoli e divenuto a Venezia direttore del San Samuele e del San Giovanni Grisostomo,  con cui il giovane aspirante drammaturgo ancora a mezzo servizio impara molti segreti del mestiere e della “concertazione” di compagnia di cui riparleremo; c’è il maestro Francesco Maggiore da Napoli;  ci sono  gli attori  di ascendenza o esperienza partenopea che gli insegnano molto (Marta Bastona, Carlo Veronese futuro padre della Camilla che ritroverà nella Comédie Italienne a Parigi); c’è la famiglia Sacchi, con il Coviello Gennaro Sacco, zio del Truffaldino Antonio, e il Tartaglia Agostino Fiorilli; c’è la grande tradizione musicale e teatrale delle birbe, delle pulcinellate, dell’opera buffa, degli scenari da baule di cui Antonia Lezza ricostruisce le tracce nascoste, sviluppando l’expertise di Vittorio Viviani, storico anomalo del teatro napoletano. Da questo bacino Goldoni (che il dialetto non lo conosceva ma di gerghi  teatrali se ne intendeva parecchio) pesca a piene mani, come del resto avevano sempre fatto i comici della Padania teatrale (l’unica di cui si possa  parlare)  fin dai tempi di Pier Maria Cecchini.

 

E c’è un anno chiave, il 1759, in cui, a distanza di qualche mese, sia Goldoni che la compagnia Sacchi si danno da fare – ognuno per proprio conto ed entrambi senza successo – per andare a lavorare a Napoli: il nostro è a Roma, dove incontra Niccolò Piccinni e dove non riesce a entrare in sintonia con gli attori napoletani che recitano en travesti la sua Vedova spiritosa (due mondi scenici inconciliabili e un fiasco). Sta cercando da tempo (non smetterà mai di provarci) di ridefinire i propri vincoli contrattuali e allentare i  ritmi di lavoro massacranti di Venezia; e del resto a Venezia, ci ricorda  Piermario Vescovo, ci è arrivato da fuori dopo una formazione compiutasi altrove, ed è questa, a dispetto di tante leggende agiografiche, la vera ragione per cui è così bravo a osservarla e raccontarla. Da Napoli gli vengono dunque «offerte non indifferenti» di ingaggio (che basterebbero da sole ad attestare la qualità e la ricchezza delle relazioni teatrali fra le due città, di cui Anna Scannapieco ricostruisce  nuove tessere preziose), ma il secco rifiuto del Vendramin  gli impedisce di accettarle. Poco dopo la compagnia Sacchi, rientrata forzosamente in Italia dopo il terremoto di Lisbona, conta a sua volta di impiegarsi come compagnia reale presso la corte di Ferdinando IV di Borbone, il re bambino tutelato da quel Bernardo Tanucci che usava i testi goldoniani come giacimenti di aforismi e aneddoti oratori (Voltaire del resto ci insegnava la grammatica italiana a sua nipote e le grammatiche tedesche coeve lo utilizzano come prontuario di traduzioni ed exempla linguistici). Ma Carlo III era stato appena nominato sul trono di Spagna, altri affari urgevano e le trattative naufragarono. Goldoni  torna a Venezia continuando a guardarsi attorno, Sacchi fa lo stesso. Lì si metterà a lavorare con Carlo Gozzi, rifacitore delle Fiabe di Basile, destinate a una grande fortuna napoletana ancora tutta da esplorare, in un’osmosi misteriosa e affascinante che comprende  persino l’abbozzo (appena ritrovato) di una Gatta cova cenere, che avrà forse visitato in sogno De Simone quando inventò la sua meravigliosa Gatta Cenerentola.

 

Se le nuove ricerche in corso su Gozzi ci attestano questa fortuna, troppo poco ancora sappiamo dell’effettivo consumo napoletano di testi goldoniani nell’Ottocento, ma c’è la musica e ci sono i libri. Anna Scannapieco approfondisce e contestualizza in questo volume una sua importante scoperta di qualche anno fa (1997) relativa all’edizione di Giacomo Antonio Venaccia del teatro goldoniano. Fra le 23 edizioni settecentesche attestate – più o meno modulate sui  propri bacini di utenza e ormai acquisite come documenti di fondamentale importanza critica e filologica – l’impresa del Venaccia presenta caratteristiche del tutto peculiari. Intanto per la sua tempestività: si inaugura infatti nel 1753 (preceduta di un anno dalla bolognese San Tommaso d’Aquino, solo tre anni dopo il varo “rivoluzionario” della Bettinelli e simultaneamente a quello della fiorentina Paperini) ed è diversa da tutte le altre. È un’edizione “cinese”, si potrebbe dire, che non nasce da un progetto culturale, ma da un audace, originale e remunerativo intuito commerciale. Per trenta anni questo libraio-editore bouquiniste, che lavora nel “passetto” di Castelcapuano, nella loggia-corridoio da cui si accede al tribunale (una postazione strategica, affollata e lucrosa), intercetta e stampa ben 104 testi goldoniani in 26 tomi smerciati anche in forma di singoli fascicoli, specializzandosi in un settore librario nuovo di zecca, fondato sul teatro, sui romanzi e sulla storia, cioè su testi di intrattenimento destinati al nuovo pubblico dei lettori borghesi (e forse  popolari?) che si sta formando. Accanto a Voltaire, Chiari, Prévost, Defoe, Seriman, Goldoni diventa familiare e accessibile, confermandosi anche a Napoli (come sarà in tutta l’Italia ottocentesca) una lettura per tutti destinata a circolare in profondità a livelli ancora tutti da esplorare (pensiamo a Manzoni o a Nievo, per esempio). Il Venaccia  copia spudoratamente, ma non tralascia i paratesti, i ritratti, le note e le dedicatorie (che altri stampatori pirata di solito mutilano), pesca dapprima dalla Bettinelli, poi dalle altre edizioni d’autore, ma anche, per non perdere il ritmo, dalla Bettinelli spuria; mescola alle commedie anche sei drammi giocosi per musica e intercetta per vie misteriose persino qualche primizia non ancora stampata dall’autore, come Il matrimonio per concorso. Ci sarà molto da lavorare sul piano filologico (e anche da ritrovare i tomi XXV-XXVI ancora irreperibili), giacché parecchie di queste stampe ci restituiscono versioni spurie interessantissime di testi vicini ai copioni d’origine, ma il dato eccezionale è costituito dalla tempestività, dalla continuità e dal profilo socio-economico di un’impresa commerciale (abilmente difesa con richieste di privilegi di stampa) destinata ad avere conseguenze per ora incalcolabili, nonostante l’oblio storiografico che finora l’aveva  inspiegabilmente  sepolta.

 

Accanto a questa linea di storia del gusto, del teatro e del libro, su cui torneremo, il volume  ricostruisce, per mano di Pasquale Sabbatino, la linea maestra della storiografia letteraria, altrettanto intrigante e complessa: si parte dal preteso discepolato goldoniano di Francesco Cerlone (1730-1812) per arrivare alle riscritture dialettali di Filippo Cammarano (1764-1842), che si applica a un restyling culto del teatro napoletano proprio sulla scorta di Goldoni. Una genealogia, questa, costruita a partire da Francesco De Sanctis, il primo a “sdoganare” Goldoni come autore  degno di figurare in una storia della letteratura quale artefice di una rivoluzione teatrale di portata galileiana fondata, nel solco di Molière, dalla restaurazione della parola; dopo di lui Salvatore Di Giacomo enfatizzerà questa valutazione in termini autobiografici e vagamente oleografici nella sua Cronaca del teatro San Carlino del 1891, rintracciando, nel solco del realismo, una continuità fra Goldoni, Verga e se stesso attraverso Scarpetta e Torelli: un percorso di faticosa emancipazione  della commedia napoletana (che sarebbe costituzionalmente priva di caratteri e sempre ostaggio di un pubblico irredimibile) dalle scorie di una tenace tradizione spagnoleggiante ed evasiva.

 

Di Giacomo, pro domo sua, pone questa ipoteca etnografica sul teatro partenopeo, ma la centralità  e il contributo dei suoi spettatori non si possono certo mettere in dubbio. Il saggio di Piermario Vescovo prende le mosse da un presunto plagio goldoniano, nel Filosofo inglese, dell’invenzione della scena multipla, rivendicata invece a Domenico Barone Cavaliere di Liveri. Un episodio apparentemente marginale (su cui mancano ancora i documenti d’avvio della polemica, ma l’esplicita risposta di Goldoni basta e avanza) che suggerisce una serie di importanti considerazioni. Domenico Barone (1685-1757) è un attore fatto nobile da re Carlo (parecchio tempo prima di Adelaide Ristori) grazie ai suoi meriti  scenici, che, fra il 1735 e il 1757, ha il privilegio di guidare a corte una filodrammatica di cosiddetti “dilettanti” lavorando sul premeditato al ritmo tranquillo di una commedia all’anno, oltre a dirigere il teatro san Carlo. Una collocazione e un tipo di produzione che si affianca, con ben diverse caratteristiche, al lavoro dei comici dell’Arte della compagnia di Gabriele Costantini, godendo del privilegio (precluso agli attori  di mestiere) di effettuare lunghe prove  e di curare con minuzia allestimenti barocchi e monumentali di commedie alla spagnola.

 

La sua specialità, documentata anche da incisioni che riproducono in certe stampe la mappa dei luoghi scenici, è appunto la costruzione di scene stabili corali, affollate di molti personaggi, concertatissime, con controscene, pantomime e inserti plurimi. Un impianto che Goldoni aveva già sperimentato per proprio conto nella Bottega del caffè (1750), o nel Campiello (1756), che avrebbe enfatizzato al massimo nel Ventaglio (1763 e 1765), e che nel Filosofo inglese utilizza una volta di più, sollevando evidentemente questa accusa di plagio. Vescovo, a partire dalla garbata ma ferma rivendicazione di originalità e di competenza avanzata nella prefazione della stampa Pitteri della commedia (del 1757), ricostruisce la vicenda da una prospettiva molto convincente e carica di implicazioni: alle accuse Goldoni risponde – glissando ma non tanto – di avere effettivamente  notizia degli apparati del marchese Liveri, ma di non averli mai visti né di averne tratto specifica contezza da stampe poco chiare da decifrare, e, soprattutto, difende fra le righe la differenza di metodo e di merito fra i ritmi imposti dal teatro commerciale, che è a tutti gli effetti un duro lavoro,  e l’agio con cui può operare una compagnia stabile garantita, che si impegna per il divertimento proprio e del sovrano destinatario: tempi lunghi e tempi brevi; stipendi reali e pressioni di botteghino.

 

Il tono è fermissimo e la precisazione importante: non è questione di chi arriva per primo, ma di come si lavora intorno alla questione fondamentale della “concertazione” scenica, che Goldoni  impara a trasferire dal teatro musicale a quello recitato, rispettando «l’esatta costruzione ed esecuzione di una discorsività ricca di piani e di sfumature d’accento» (p. 74) che essa esige. Le polemiche sui plagi in materia di spettacolo sono antiche, ricorrenti e spesso brucianti, ma la questione può anche essere pensata in termini radicalmente diversi ed ha a che fare con concrete esperienze sceniche, e mai con descrizioni libresche. A questo proposito Vescovo fa riferimento all’opposta vicenda di Goldoni plagiato da Diderot nel Padre di famiglia e la smonta, osservando  che quest’ultimo si riferisce a un’idea base di scena-quadro alla francese, sostanzialmente statica e in stretta relazione con la visività pittorica, remota dalla sensibilità e dall’esperienza goldoniana. Goldoni e Barone invece si confrontano, ciascuno in riferimento al proprio orizzonte produttivo, con un’idea di scena, di matrice musicale e attoriale, quale quadro in grado di ricostruire «l’immagine parlante di un pezzo di città» (e si può pensare a Eduardo De Filippo), legata a pratiche discorsive e ad esperienze che possono esulare dalla lineare trasmissione di modelli letterari, e per le quali dunque non si può accampare la nozione tradizionale di plagio.

 

Una tale consapevolezza, così lucidamente applicata alla marginale questione del primato fra Goldoni e Liveri, si potrebbe assumere come la faglia sotterranea  e unitaria su cui è costruito tutto questo libro: un’affinità elettiva disforme fra due grandi civiltà teatrali, di cui rende conto la seconda sezione, raccordando il Goldoni storico e filologico al Goldoni posseduto, sognato, contaminato della scena contemporanea napoletana. Epifanio Ajello segue un sentiero estravagante che, intorno al perduto Lunario giovanile (1732), una specie di baule di trame comiche possibili, analizza il senso di una protostoria goldoniana fatta di libri scomparsi o mai scritti, legata a un comico non ancora e non necessariamente “onorato” e all’empiria multiforme dei sottogeneri della teatralità.

 

È un altro possibile punto di partenza per occuparsene oggi attraverso una serie di spettacoli importanti. Così Isabella Innamorati analizza la Trilogia della villeggiatura di Servillo (2007) come rilettura metadrammatica e metateatrale (dopo Strehler, Castri e Missiroli) da parte di un attore-regista che affida allo scrocco Fernando un forte messaggio di autobiografismo artistico. Paolo Puppa, confrontandosi da critico e drammaturgo in proprio con un Goldoni notturno e babelico, rimette a fuoco  il possibile valore saggistico degli atti interpretativi compiuti dagli uomini di scena sugli autori (mai così decisivi come nel caso di Goldoni). Alfonso Santagata racconta la propria rilettura scenica del Teatro comico (2006) in chiave non solo autobiografica, ma costitutivamente “meridionale”, guardando a Eduardo e a Pirandello. Insieme alle Doglianze degli attori a maschera di Enzo Moscato, al Molière di Letizia Russo, e al Feudatario di Pierpaolo Sepe, riemerge dal bilancio teatrale napoletano di questo bicentenario un’affinità profonda fra Goldoni e Napoli, legata a una teatralità come “specchio della vita” di tipo antropologico (come declinava un libro di Stefano De Matteis di qualche anno fa (il Mulino 1991), oltre il gramscismo, che pure è stato così importante, di Baratto e di Strehler.

 

Specificità culturali, scambi produttivi, convivenze fra vecchio e nuovo, dialettiche fra tradizione e innovazione, apporti molteplici di un teatro sociale e collettivo fatto di attori, autori e spettatori: tutto questo abbiamo ora davanti a proposito di Goldoni (e non solo) e i saggi raccolti in Oltre la Serenissima cominciano a renderne conto, aprendo una serie di nuove, affascinanti piste di indagine.


di Marzia Pieri


La copertina

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