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Il Castello di Elsinore


anno XVIII, 51, 2005, euro 18,00
Buona parte del numero di giugno è occupata dal saggio di Francesco Carpanelli (il dramma euripideo tra patologia umana e patologia politica) relativo all'evoluzione dell'opera euripidea, dai primi agli ultimi drammi che, scritti dal tragediografo poco prima di lasciare Atene per raggiungere la Macedonia, anticipano ormai la Commedia Nuova. Ad essere individuati come motivi portanti di tutta la produzione sono l'«isolamento del saggio dalla vita pratica» e la «disgregazione dell'elemento monarchico o tirannico incapace, da solo, di gestire l'ordine costituito». L'opera di Euripide – scrive Carpanelli – diventa l'unico modo per riaffermare il legame tra il teatro e la politica.

Al saggio di Carpanelli segue un ispirato contributo spiritualista firmato da Eleonora Manca: Tra santa cecità e perfetta idiozia. Appunti su Maeterlinck e Beckett. Si tratta di un interessante confronto tra I ciechi di Maeterlink e l'Aspettando Godot di Beckett. A chiudere l'intervento è una geniale citazione da Carmelo Bene che si trova a riproporre l'assunto centrale del pensiero petroliniano: «è così che un santo perde se stesso, tramite l'idiozia incontrollata. Un altare comincia dove finisce la misura. Essere santi è perdere il controllo, rinunciare al peso, e il peso è organizzare la propria dimensione. Dov'è passata una strega, passerà una fata».

E' strutturato come un teorema l'articolo successivo che, scritto dal professore Behzad Ghaderi Sohi dell'Università di Kerman (Iran), si intitola The Crack in the Skull: Chekhov’s Deconstruction of the Cartesian Self. «Chekhov's (1860-1904) plays – si legge nella breve introduzione - show a shrunken, grotesque, disjointed world ruled by chance. His microscopic knife that anatomizes structures cuts into the crystal-clear Aristotelian plot, leaves us with the only option of seeing cracks in the psyche of characters and, thereby, distorts the concept of unity of the "subject" once considered the prime objective of mimesis». Čechov, secondo Behzad Ghaderi Sohi, ha abbandonato il realismo mimetico ottocentesco per porsi come erede dei primi scrittori romantici che, abituati a osservare la realtà attraverso specchi sempre concavi o convessi, mostravano  «asymmetrical figures and disharmonious situations». Lo sguardo di Čechov concentra abitualmente la propria attenzione su ciò che avviene nelle zone periferiche della realtà. Per Aristotele e Cartesio erano adeguate ad essere mostrate sul palcoscenico solo le situazioni che coinvolgevano le alte sfere della società; «the margins and the marginalized – tanto per Aristotele quanto per Cartesio – did not count». Questo modo di concepire l'arte rappresentativa subisce, ad opera del drammaturgo e medico russo, un completo ribaltamento.

Dopo le tragedie classiche, il simbolismo, il teatro dell'assurdo ed il "post-romanticismo" čechoviano, ci si imbatte in un articolo meta-artistico che riguarda la vexata quaestio sul rapporto fra l'artista (ovvero l'uomo, lo spirito, la morte) e il proprio modello (ovvero la donna, la natura, il movimento e quindi la vita): Art versus Life in Three Plays by Ibsen, D’Annunzio and Pirandello. E l'autrice – Daniela Bini dell'Università di Austin (Texas) – non può che svolgere un dettagliato studio comparativo dei tre drammi Quando noi morti ci destiamo (1899), La Gioconda (1899) e Diana e la Tuda (1926), rispettivamente di Ibsen, D'Annunzio e Pirandello.

Nell'ultimo contributo (Carmelo Bene: una drammaturgia della scena), Silvana Sinisi affronta «l'analisi del ruolo affidato alla scena all'interno del lavoro di Carmelo Bene». Che, preferendo soprattutto negli ultimi anni lavorare sulla sottrazione, invece di "mettere in scena" parlava paradossalmente di "togliere di scena".

Nella sezione "Materiali", infine, è presente l'articolo che Daniela Cavallaro ha tratto dal testo di una conferenza da lei tenuta al Burcardo di Roma il 2 dicembre 2003 e intitolata Nuove tendenze della cultura maori: il teatro biculturale. Colonizzata dalla Gran Bretagna alla fine dell'Ottocento, la Nuova Zelanda ha riscoperto solo recentemente le proprie radici maori. La prima opera letteraria pubblicata da uno scrittore maori - la raccolta di racconti Pounamu, Pounamu di Witi Ihimaera - risale al 1972. Da allora si sta assistendo a un vero e proprio "rinascimento maori" che coinvolge soprattutto il teatro e la poesia, vale a dire le due forme artistiche più vicine alla spiritualità e all'inafferrabilità della narrazione orale. E gli elementi culturali che stanno alla base della tradizione maori sono proprio, non a caso, il legame viscerale con la terra, il passato e i propri antenati, l'importanza dell'identità personale e nazionale, la necessità infine di salvaguardare la lingua maori dal rischio dell'estinzione. Comparsi solo negli anni Ottanta, i primi drammaturghi maori hanno dato vita a quello che è oggi comunemente definito "teatro biculturale". Un tipo di teatro destinato tanto al pubblico più tradizionale quanto al pubblico maori. Benché i drammi abbiano dialoghi prevalentemente scritti in inglese e una struttura mutuata da quella del teatro classico occidentale, «la componente maori, nelle tematiche, nelle espressioni, nella performance, predomina assoluta». Vengono quindi esaminati due dei testi più rappresentativi del teatro maori contemporaneo: Waiora di Hone Kouka del 1996, una suggestiva tragedia generazionale con riferimenti tanto a Family Reunion di T. S. Eliot quanto al film Ordet di T. Dreyer, e Woman Far Walking di Witi Ihimaera (2002), in cui l'azione – o meglio l'assenza di azione – ha luogo il 6 febbraio 2000. Il giorno in cui la protagonista, Tiri, compie 160 anni e racconta, prima di morire, la  propria vicenda biografica alla giovane Tilly che, spingendola continuamente a ricordare i traumi passati, ricopre in effetti il ruolo di "coscienza" della protagonista. Insieme alla propria vita privata, Tiri ripercorre la storia della Nuova Zelanda; una storia di genocidi, violenze, soprusi, diritti negati. La morte arriva e Tiri fa appena in tempo, ricevuto il telegramma di auguri inviatole dalla Regina d'Inghilterra come donna più anziana del Commonwealth, a sputarci sopra: «il suo incontro con la morte è una sospirata riunione con i mariti, i figli, i nipoti e tutte le generazioni che l'hanno preceduta, nella consapevolezza che le nuove generazioni continueranno nella sua lotta per i diritti dei maori».    



Giulia Tellini


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