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Ramon del Valle-Inclan

Commedie barbare

A cura di Luisa de Aliprandini

Roma, Bulzoni, 27,00 euro, pp. 490
ISBN 88-8319-837-9
"Magnifícamente quijotesco y anárquico" come lo definì il suo amico Cipriano de Rivas Cherif, Ramón Valle Peña (poi Ramón Del Valle-Inclán) nacque nel 1866 a Villanueva de Arosa; si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Santiago de Compostela ma non si laureò mai; morto il padre nel 1890 si trasferì a Madrid dove si fece conoscere frequentando assiduamente caffè e circoli letterari; cominciò a pubblicare racconti, saggi e romanzi che scriveva con straordinaria prolificità e a comporre opere teatrali che venivano prontamente messe in scena; poco dopo aver iniziato a svolgere la professione di attore - durante una lite da lui fomentata - si procurò una grave ferita al braccio sinistro che presto gli venne amputato; eccentrico ed esibizionista, orgoglioso di essere considerato – come Cervantes – il moderno "manco", trascorse la propria vita senza riuscire a rimanere fermo in un posto per più di un paio d'anni, sempre in miseria, spesso in prigione e privo di un lavoro fisso nonostante il continuo interessamento dei molti eroici amici che riuscivano a sopportare il suo carattere irascibile e irrequieto; separatosi nel 1932 dalla moglie (l'attrice Josefina Blanco Tejerina) che aveva sposato nel 1907 e che gli aveva dato sei figli; morì in un ospedale di Santiago di Compostela nel 1936.  

Scritta dal 1907 al 1908, la trilogia delle Commedie barbare (costituita da Faccia d'Argento, Aquila di Blasone e Ballata di lupi) – più adatta alla lettura che non alla rappresentazione - si svolge negli anni dell'ultima guerra carlista (1870-1875) ed è ambientata nelle campagne intorno a Villanueva de Arosa. Protagonista assoluto della trilogia è il Nobiluomo Don Juan Manuel Montenegro. Nella prima "commedia", il giovane e bellissimo Faccia d'Argento smania per godere delle grazie di Sabelita, onesta vergine adottata in tenera età dai suoi genitori, vale a dire dal Nobiluomo e da Donna Maria. Ricevuto un rifiuto dalla ragazza, Faccia d'Argento cede alle profferte della puttana Piccioncina mentre Sabelita viene rapita dal Nobiluomo, il padre adottivo.

Aquila di Blasone - che è forse il più suggestivo, delirante, pittoresco, sgradevole, irritante e morboso dei tre testi – mostra all'inizio la metamorfosi di Sabelita (ora chiamata "concubina") che da pura e soave fanciulla si è mutata in una patetica e masochista creatura pronta a sacrificarsi per la felicità del proprio seduttore: il suo amore è direttamente proporzionale al trattamento mortificante che è disposta a tollerare di continuo, con abnegazione da martire, da parte del Nobiluomo. Gli avvenimenti quindi precipitano: irrompe nottetempo nella casa del Nobiluomo un gruppo di ladri (che si riveleranno, Faccia d'Argento escluso, gli altri suoi cinque figli); il primogenito stupra selvaggiamente - dopo averla data quasi in pasto a una muta di cani – Liberata, la moglie incinta del mugnaio; Sabelita chiede perdono a Donna Maria che è andata a trovare il marito malmenato dai propri figli; Sabelita fugge nella notte e toglie il malocchio a una donna; a Donna Maria appare la Madonna; mentre Faccia d'Argento è a letto con Piccioncina, suo fratello in un calderone lessa un cadavere appena tolto dalla tomba per ottenerne lo scheletro che poi venderà al Seminario; Liberata diviene in breve l'amante-schiava del Nobiluomo; Sabelita – in odor di santità - si butta nel fiume ma un Traghettatore la salva.

In Ballata di lupi si assiste al pentimento del Nobiluomo per la propria vita scellerata. Nel cuore di  una notte buia e tempestosa, gli viene comunicato che Donna Maria è in fin di vita. Si imbarca e, arrivato a destinazione, scopre che i figli – dopo il funerale della madre – hanno rubato gli arredi sacri dalla chiesa. In compagnia di un lebbroso chiamato "Il Povero di San Lazzaro", si mette dunque a capo – un po' come Enrico Maria Salerno in L'armata Brancaleone - di una schiera di anime in pena, per lo più mendicanti e penitenti.

Ci venga a questo punto assolto il peccato - veniale - di non aver saputo resistere alla tentazione di riassumere a grandi linee la trama della trilogia.

Trionfo dell'espressionismo più kitsch e del gotico più macabro, queste Commedie barbare sono quanto di più provocante, esaltato, vulcanico, manicheo, oscurantista e irrazionale fantasia umana – particolarmente eccitabile - possa dare alla luce. Le donne sono tutte sante o puttane (prevalgono, tuttavia, le seconde) e comunque, in entrambi i casi, sono sempre vittime mentre gli uomini sono sadici schiavisti, ladri o pazzi («Ho paura di essere il Diavolo!» dice il Nobiluomo alla fine di Faccia d'Argento) e comunque sono tutti carnefici. I rapporti interpersonali sono tuttavia descritti da Ramón del Valle-Inclán con una minuzia, una verosimiglianza e una finezza psicologica nostro malgrado sconcertante: valga come esempio la relazione fra il Nobiluomo – misogino, egoista e gratuitamente crudele come ce ne sono (ce ne sono stati e ce ne saranno sempre) tanti - e Sabelita, oppressa dal suo pesante fardello di impaurita, tacita e impotente sottomissione. Tutto è iperrealistico – visioni, incubi, superstizioni e rituali scaramantici inclusi - fino ad essere disgustosamente e paradossalmente realistico.

Paragrafo a parte lo meritano le didascalie; veri e propri gioielli (di retorica a buon mercato, autocompiacimento in quantità industriali e seducente astuzia da mestierante), sia che ritraggano persone, paesaggi o frammenti di gesti: «Blaz di Míguez, uomo di frottole e bugie, la faccia di sugna rancida, la bocca grande, le gengive senza denti, le sopracciglia spelacchiate, gli occhi piagnucolosi, un gran vigliacco quel sagrestano di san Clemente», oppure «Giardino di stelle la sera e tra quattro cipressi neri le pietre romaniche di San Martino di Freyres. Sono fuochi remoti le cime dei monti, e le falde, sinfonici viola. Passa la preghiera del vento tra i campi di mais, ormai notturni, e le strade, che al crepuscolo sono ancora ocra e cadmio, stanno volgendo ai toni del violetto», o ancora «La concubina si affaccia alla porta, una nube di tristezza vela i suoi occhi, occhi di bimba e di devota che hanno un qualcosa del fiore», e per finire «Sabelita si allontana lungo un sentiero tra campi di mais che scendono verso la riva del fiume e, nelle sue mani pallide, la mela sanguigna sembra un cuore». Degna di ammirazione l’accurata traduzione di Luisa de Aliprandini.

 


Giulia Tellini


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