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La sovranità nel mondo moderno

di Giuseppe Gario
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Data di pubblicazione su web 08/11/2021  

Machiavelli pensava che per il Principe fosse meglio esser temuto che amato. L’America può avere tratto la stessa lezione dall’11 Settembre. Ma la paura è l’alleato migliore? Afghanistan e Iraq sono destinati a divenire metro di successo di una strategia di sicurezza con l’intimidazione? Non in un’era d’interdipendenza. Non quando far da soli prelude al fallimento. Non quando il terrorismo ha messo in luce la fragilità della sovranità e l’obsolescenza di una dichiarazione di indipendenza un tempo orgogliosa. Se l’11 Settembre è una lezione sul potere della paura, lo è anche sull’insufficienza del potere militare». «Cercando un mondo più sicuro, abbiamo sistematicamente minato la sicurezza collettiva. Nel reagire all’illegalità globale la nazione ha vacillato tra appellarsi alla legge o sminuirla, ricorrere alle istituzioni internazionali o sfidarle. Ha invocato il diritto a azioni unilaterali, guerre preventive e cambi di regime che scalzano il quadro internazionale di cooperazione e legge di cui fu un tempo l’architetto-capo – ma solo questo quadro può superare l’anarchia terrorista. La guerra al terrorismo del presidente Bush può essere giusta o no, rispettare o no i valori americani, ma la cosa più importante è che, così com’è stata perseguita e nonostante i successi militari, non può e non vuole sconfiggere il terrorismo. Dalla peste HIV al riscaldamento globale, dai monopoli mediatici globali ai cartelli criminali internazionali, ogni nuovo tratto del mondo interdipendente chiede all’America di guardare avanti; ma, a occhi chiusi, si guarda dentro». «“Modello” di società democratica l’America spesso agisce con plutocratico spregio per le istanze di uguaglianza globale, condannando un’ombra di ‘asse del diavolo’ e ignorando un fin troppo visibile asse di disuguaglianza» (B.R. Barber Fear’s Empire: War, Terrorism and Democracy, New York, Norton & Company, 2001, pp. 16-17).

«Siamo chiaramente entrati in una economia speculativa. La speculazione punta su attivi o beni rari a offerta rigida che traduce più domanda in prezzi più alti. Immobili, criptomonete, azioni riacquistate dalle imprese e meno disponibili, materie prime la cui maggiore produzione vuole tempo. Il problema è che l’economia speculativa è inefficace. Una parte importante di risparmio compra attivi speculativi, non capitale produttivo». «Si sa, lo scarso rendimento degli attivi tradizionali è dovuto alle politiche monetarie molto espansive delle banche centrali». «Che fare? Rinunciare a queste politiche. Ma è difficile, se non impossibile, in economie molto indebitate dove una politica monetaria restrittiva, a tassi di interesse molto alti, scatenerebbe crisi di debito. Bisogna invece scoraggiare gli investimenti in attivi speculativi, con vari strumenti: proibire le criptomonete private (come in Cina); tassare le plusvalenze a breve termine sul capitale; aumentare i vantaggi fiscali per investimenti in capitale produttivo. Se no, proseguirà il paradosso di politiche monetarie espansive e bassi tassi d’interesse che alimentano la speculazione e riducono i guadagni di produttività della economia reale» (P. Artus, Une économie de spéculation, in «Le Monde», 3-4 ottobre 2021, on line).

 

Nel 2008 «alcuni gestori di fondi di investimento speculativi (gli hedge funds) e alcuni funzionari di molte banche d’affari agirono a proprio vantaggio, invece di parlare. Peraltro, qualche dipendente governativo o impiegato presso la Federal Reserve espresse profonda preoccupazione. E diversi economisti, come Kenneth Rogoff, Nouriel Roubini, Robert Shiller e William White lanciarono ripetuti avvertimenti». «Il problema, quindi, non fu che nessuno avvertì dei pericoli, ma che quanti – molti – beneficiavano del surriscaldamento della economia erano poco incentivati ad ascoltare. Le voci critiche furono accusate di fare la parte di Cassandra». «Lo so, perché ero una di quelle Cassandre». «Non esagero molto confessando che mi sentii come uno dei primi cristiani in mezzo a un branco di lupi famelici» (R.G. Rajan, Terremoti finanziari. Come le fratture nascoste minacciano l’economia globale, Torino, Einaudi, 2012, pp. 3-4 e 6).

 

«“La crescita economica è ancorata nella cultura, nella politica e nelle istituzioni” riassume in una recente nota l’Agenzia europea per l’ambiente (EEA), organo ufficiale consultivo UE. “Nel mondo la legittimità dei governi è indissociabile dalla capacità di assicurare la crescita economica e creare lavoro”. È impensabile un mondo economicamente stazionario». «“Una riduzione della pressione e degli impatti ambientali esigerebbe trasformazioni fondamentali, per andare verso un diverso tipo di economia e società, dice l’EEA, invece di cercare progressivi guadagni di efficienza del sistema di produzione e consumo attuale”. Per la maggior parte di noi, una simile rivoluzione culturale sembra oggi impossibile. Ma basta proiettarsi in un mondo con più 2 gradi di riscaldamento per chiederci se abbiamo davvero scelta» (S. Foucart, La croissance, una croyance parmi d’autres, in «Le Monde», 3-4 ottobre 2021, online). È in crisi la sovranità nel mondo moderno.

 

 

La sovranità nel mondo moderno «risale alla nascita dei grandi Stati nazionali europei e al correlativo incrinarsi, alle soglie dell’età moderna, dell’idea di un ordinamento giuridico universale che la cultura medioevale aveva ereditato dalla cultura romana», sostituito dalla «particolare formazione politico-giuridica che è lo Stato nazionale moderno, nata in Europa poco più di quattro secoli fa, esportata in questo secolo in tutto il pianeta e oggi al tramonto» (L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Roma, Laterza, 1997, pp. 7-8). «“Il concetto di sovranità”, scriveva Kelsen a conclusione del suo celebre saggio sulla sovranità del 1920, “deve essere radicalmente rimosso. È questa la rivoluzione della coscienza culturale di cui abbiamo per prima cosa bisogno”» (ivi, p. 10). Ma i sovranisti «condividono, con quelli dei difensori dell’ordine diseguale esistente, la medesima fallacia realistica: quella fallacia che nel diritto internazionale prende il nome di ‘principio di effettività’ e risale, come ho ricordato, ad Alberico Gentili e Ugo Grozio. Contro questa fallacia, che appiattisce il diritto sul fatto, dobbiamo recuperare la dimensione normativa e assiologica della scienza giuridica internazionale […] riconoscendo che il diritto è come lo fanno gli uomini e dunque tutti noi, a cominciare da noi giuristi […] e che è un sistema normativo, sicché gli assetti e i comportamenti effettivi degli Stati con esso in contrasto non ne rappresentano delle ‘smentite’, come spesso lamentano giuristi e politologi realisti, ma piuttosto delle ‘violazioni’ di cui abbiamo il compito di denunciare l’illegittimità» (ivi, p. 56). È un’«embrionale costituzione del mondo. I valori in essa incorporati – il divieto della guerra e i diritti degli uomini e dei popoli – non essendo più esterni all’ordinamento ma essendo divenuti norme giuridiche sopraordinate a tutte le altre, non sono più fonti di delegittimazione ideologica ma fonti di delegittimazione giuridica» (ivi, p. 57). «La vera alternativa che abbiamo di fronte non è tra realismo e utopia normativistica, ma tra realismo dei tempi brevi e realismo dei tempi lunghi». «Se è vero che nei tempi brevi non possiamo farci illusioni, è anche vero che la storia c’insegna che i diritti non cadono dal cielo» (ivi, p. 58).

 

Oggi «siamo la prima generazione umana che abbia fatto tutta insieme un’esperienza collettiva del paradigma di Hobbes: la paura della morte come causa della soggezione a un moderno Leviatano. Un’opinione che fu anticipata dall’allievo dei gesuiti Giovanni Botero, il quale nella sua celebre e molto letta Ragion di Stato, scrisse: «Io sono di parere che, per la sicurezza de gli Stati, e de’ prencipi loro, miglior cosa sia la severità del governo, che la piacevolezza; e la paura, che l’amore; e la ragion si è, che il farti amare da tutto un popolo, non è in tua potestà; ma bene è in tua possanza il farti temere. Aspettiamo di vedere le forme in cui prenderà corpo questa esperienza» (A. Prosperi, Tremare è umano. Una breve storia della paura, Milano, Solferino, 2021, p. 146). In UE è cronaca.

 

«Boris Johnson voleva davvero lasciare l’UE. Come l’ungherese Viktor Orban, Jaroslaw Kaczynski, capo del partito nazionalista diritto e giustizia (PIS) al potere a Varsavia, vuole restarvi, ma distorcendone le regole e liberarsi del quadro giuridico che ne limita la deriva anti-democratica. Se attua il giudizio del tribunale costituzionale, il governo polacco ha tre opzioni, scrive Piotr Buras, esperto polacco del gruppo di riflessione European Center on Foreing Relations, nel sito Balkan Insight: “Cambiare i trattati europei, cambiare la Costituzione polacca, o un ‘Polexit’. Ma la vera battaglia sarà su una quarta opzione, ben più devastante per l’UE di un nuovo ‘exit’ di un suo membro: la demolizione dell’ordine giuridico UE dall’interno”. È la risposta del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki al putiferio scatenato dal verdetto del tribunale costituzionale e alle dozzine di migliaia di compatrioti in strada con la bandiera europea». «Secondo lui, la Polonia ha ripreso in Europa il posto di cui era stata privata, le sovvenzioni sono dovute in riparazione di questa ingiustizia e le regole decise da altri non si impongono. Ma queste regole sono state accettate dai Polacchi con referendum. E per contestare l’ordine giuridico che rifiuta, Morawiecki fa leva su una corte di magistrati che tutto il mondo sa agli ordini del suo partito. Non può più, come Boris Johnson, appellarsi al voto popolare che, nei sondaggi, perderebbe. La Polonia gioca col fuoco, ammonisce Jean Asselborn, capo della diplomazia lussemburghese. Senz’altro. Ma per l’UE il gioco è altrettanto pericoloso. Per riportare Varsavia alla ragione, bloccare le decine di miliardi di euro promessi alla Polonia nel piano di rilancio europeo anti-Covid potrebbe alla lunga attizzare il risentimento di quei polacchi che si sentono ingiustamente trattati». «Attenzione, è il diritto che viene attaccato, e la china è viscida» (S. Kaufmann, Un “Polexit” peut en cacher un autre, in «Le Monde», 14 ottobre 2021, online). «Corruzione, autocrazia, governo dispotico: erano i pericoli cui molti speravano l'Europa orientale stesse sfuggendo quando le sue democrazie nascenti si unirono all'Unione Europea nei primi anni 2000. Invece, con preoccupazione del resto d’Europa, hanno semplicemente contrabbandato questi vizi nell’UE» (An October revolution, in «The Economist», 23-29 ottobre 2021, on line).

 

«L’originalità di questa unione è che per sua natura è molto diversa da una alleanza fondata sulla sola sovranità degli Stati. Un’alleanza non crea una nuova forma di sovranità, che è il caso dell’UE». «Fondamento della coesione europea, che ne ispira i valori fondamentali e lo sviluppo delle politiche, è la necessità di essere uniti. Ma una semplice alleanza non offre questa garanzia di permanenza. La stabilità di quest’ordine giuridico di Stati che hanno deciso liberamente e sovranamente di associarsi in un’unione più ampia per escludere in modo durevole ogni rischio di conflitto interno, suppone un livello minimo di omogeneità politica, implica un accordo incontestabile su dei valori politici comuni» (T. Chopin, L’intégration européenne ne peut être réduite à une simple alliance entre Etats souverains, in «Le Monde», 20 ottobre 2021, on line). I valori di libertà e cittadinanza condivisi di diritto e non per concessione sovrana. Valori oggi calpestati da No Vax/No Green Pass. «Più siamo liberi, più dobbiamo essere responsabili verso gli altri. Ma i disobbedienti non sembrano aver compreso questa proporzione: le responsabilità – per loro – sono da socializzare, a differenza dei benefici che invece vorrebbero mantenere privati. È una brutta vicenda piena di contraddizioni, ignoranza e furbizia. Dove chi ne beneficia sono quei cinici senza virtù all’incetta di voti che sfruttano le contingenze della storia e le debolezze della gente. E giustificano i vizi umani, anche i più bassi, nel nome di un concetto di libertà senza cittadinanza» dei No-Vax/No Green Pass (S.M. Sepe, La libertà senza cittadinanza nella stagione del Green pass, in «Avvenire», 21 ottobre 2021, p. 3).

 

Fin dal 1947, nella traduzione italiana di Autorité et Bien Commun. Aux fondements de la Société, pubblicato in Francia nel 1944, Gaston Fessard indica la via: «il comando del Principe cosiddetto ‘legittimo’ non basta più a assicurare al cittadino di stare perseguendo il bene comune nazionale. Al contrario è a partire dal Bene comune universale che il cittadino deve discernere se l’ordine ricevuto emani dall’autorità legittima o da un potere illegittimo, per obbedire alla prima e resistere all’altro» (G. Fessard, Autorité et Bien Commun. Aux fondements de la Société, Éditions Ad Solem, 2015, p. 224). Così agisce «un sindaco di provincia “conservatore e credente” contro Viktor Orban. Peter Marki-Zay, 49 anni, ha vinto al secondo turno le primarie di opposizione ungherese per le elezioni legislative di primavera 2022. Primato storico, hanno coinvolto oltre 600 mila ungheresi, che hanno designato un candidato unico di sei partiti di opposizione, dalla sinistra all’estrema destra, per cercare di battere il primo ministro nazionalista che ininterrottamente governa dal 2010 questo paese di 9,8 milioni di abitanti». «Secondo i sondaggi l’opposizione è gomito a gomito col Fidesz del primo ministro uscente e ha modo di batterlo, per la prima volta in dodici anni» (J.B. Chastand, Hongrie: Orban face à un catholique conservateur, in «Le Monde», 18 ottobre 2021, on line).

 

Sull’ambiente, bene comune universale, due giovani dialogano in tweet con Greta Thunberg: «“Le azioni individuali da sole non sono abbastanza, ma sono il catalizzatore del cambiamento di cui abbiamo bisogno”» e «“Non possiamo aspettare che i governi e le imprese facciano la cosa giusta. Se la gente non vota col portafoglio i potenti lo considereranno come un segnale che gli stessi non voteranno neanche alle elezioni per la sostenibilità ambientale. Se noi non agiamo, le istituzioni ci ignoreranno”». Commenta Leonardo Becchetti: «Il vero “potere forte” dunque alla fine siamo noi. Il gioco della comunicazione tende a mistificare questa verità con l’obiettivo di orientare questo potere nella direzione desiderata con le leve del marketing» (Una cosa su cui Greta sbaglia, in «Avvenire», 27 ottobre 2021, pp. 1-2). Neoliberismo e marketing invece di libertà e cittadinanza.








 
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