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La maledetta ossessione di Rigoletto

di Carmelo Alberti
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Data di pubblicazione su web 11/10/2021  


L’attenzione con cui si tende a ristabilire la natura teatrale delle grandi opere di Giuseppe Verdi trova una piena realizzazione nel Rigoletto messo in scena in apertura della stagione 2021-2022 dal Teatro La Fenice di Venezia, con la direzione di Daniele Callegari e la regia di Damiano Michieletto. Fin dalle prime battute del preludio strumentale emerge quale sia il tema-guida scelto da Verdi, quello della “maledizione”, un termine che dà il titolo alla prima versione del libretto, tratto da Francesco Maria Piave da Le Roi s’amuse di Victor Hugo (1832). Ciò che nel tracciato drammatico attrae il compositore è una visione fluida del “grottesco” che, nella prima esecuzione veneziana commissionata dalla Fenice e andata in scena l’11 marzo 1851, emerge laddove si sottolinea la complessità dei personaggi, a cominciare dal protagonista, il buffone di corte, che non esita a irridere l’intensa sofferenza di un padre, il conte di Monterone, salvo restare fulminato subito dopo dalla potenza del suo anatema: «Quel vecchio maledivami!» (atto I, scena settima).


Un momento dello spettacolo

Procedendo dall’esame critico dell’opera, l’intesa tra il direttore e il regista esalta i chiaroscuri della partitura, raggiungendo la forma di un’esecuzione scenica compatta che sottolinea la veemenza del dolore che agita l’anima e la mente di Rigoletto. La regia va oltre il disegno verdiano, proiettando la vicenda al di là della seduzione e dell’uccisione di Gilda, la figlia del buffone gobbo, inutilmente difesa con tutte le forze dalle brame libertine del Duca di Mantova. Rielaborando l’allestimento del 9 maggio 1917 presso l’Opera Nazionale Olandese di Amsterdam, Michieletto, coadiuvato anche stavolta dallo scenografo Paolo Fantin, dal costumista Agostino Cavalca e dal light designer Alessandro Carletti, svela i tormenti più nascosti di Rigoletto, mentre è rinchiuso nello spazio asettico e insieme torbido di un ospedale psichiatrico; egli appare come un uomo che il rimorso ha condotto alla follia. Nella sua memoria turbina l’immagine di Gilda bambina innocente, che invano ha tentato di separare dal mondo, rinchiudendola in una stanza: per cui fin dall’apertura del sipario il regista pone sul palcoscenico una ragazzina silente e fantasmatica, mentre sullo sfondo lascia scorrere le proiezioni di quella stessa adolescente intenta a disegnare figurine infantili e a guardare oltre le grate della finestra. Le sequenze-video accompagnano i momenti fondamentali dell’opera, mentre sulla scena s’intuisce l’emancipazione di Gilda attraverso la scoperta dell’amore: lo sancisce l’aria «Caro nome che il mio cor» (atto primo, scena tredicesima) da lei cantata con toni ritmati, quasi a volere sottolineare il passaggio alla passionalità di un’adolescente.


Un momento dello spettacolo
© Michele Crosera


Inoltre, il coro dei cortigiani somiglia al brulicare di spettri il cui volto è coperto da una maschera con le fattezze del Duca; sono proiettati verso la sala, quasi a fondersi con il pubblico che siede con le mascherine sul viso. Il legame tra quelle larve e Rigoletto, dunque, s’intensifica mentre il buffone sente crescere in sé l’ossessione e il “desio” della vendetta («Sì, vendetta, tremenda vendetta», atto secondo, scena ottava) contro l’arroganza del patrizio mantovano, che si esprime con le parole dell’aria «La donna è mobile» (atto terzo, scena seconda). Sul piano espressivo Michieletto comprime le trasgressioni sessuali del Duca entro la dimensione dello strappo che ha prodotto nella personalità della figlia, mentre l’anatema contro il seduttore gaudente, sulla scia del Don Giovanni mozartiano, ha finito per colpire il servo anziché il padrone.


Un momento dello spettacolo
© Michele Crosera


La dinamica del racconto scenico, prosciugato da ogni enfasi esecutiva dei cantanti, evidenzia la profondità del dolore di Rigoletto, interpretato in modo superlativo e con un assoluto controllo da Luca Salsi, sempre in presenza, in grado di esaltare un ventaglio di sentimenti in modo diretto e immediato, fino a generare commozione in chi assiste. La metamorfosi di Gilda, che trascorre la sua carriera filiale dall’ingenuità al sacrificio estremo, è cantata da Claudia Pavone con un apprezzabile controllo; guizzante e vivace la recitazione di Ivan Ayon Rivas nelle vesti del Duca; degna di considerazione la prova degli altri cantanti, immersi nel delirio senza fine del buffone impazzito. La direzione musicale di Daniele Callegari è risultata coesa e attenta a restituire la qualità del testo musicale.


Un momento dello spettacolo
© Michele Crosera


La regia di Michieletto è costellata da vari gesti simbolici, da alcuni segmenti narrativi lasciati fluttuare nello spazio, tali da sembrare talvolta delle incongruenze che invece divengono significative se ricondotte nella sfera del tormento di Rigoletto, come il fallimento di un padre che ha determinato la morte e il seppellimento dell’amata bambina con le proprie mani. Oltre alle influenze del cinema gotico-visionario, che accompagnano un viaggio nella notte della follia, si notano i segnali di una frontalità brechtiana della rappresentazione, forse per sterilizzare i residui dei tecnicismi operistici a vantaggio del primato teatrale. Intensi applausi hanno premiato lo spettacolo.





La maledetta ossessione di Rigoletto



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Un momento dello spettacolo

 
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