Tra le incredibili foreste tropicali filippine
si annida un male profondo e spietatamente lucido. Ultimo film di Lav Diaz, Genius
Pan segna il ritorno al Lido del regista filippino a quattro anni
dalla vittoria del Leone doro con The Woman Who Left (2016). Lisola di Hugaw può apparire
splendida allocchio esterno, ma cela in sé terribili verità, a partire dal suo
nome, che nella lingua del posto significa “sporco”, “lercio”
a causa degli ex campi di prigionia per schiave sessuali.
Durante una pausa dal loro sfiancante e pericoloso
lavoro, i tre minatori Andres (Don Melvin Boongaling), Paulo (Bart
Guingona) e Baldo (Nanding Josef) si avventurano nelle insidiose
foreste del luogo per raggiungere il paese natale. Immersi nella natura fitta e
rigogliosa, si confidano sempre più sulle rispettive esperienze facendo
emergere terribili verità e storie sepolte. Una sera, dopo aver bevuto un
goccio di troppo, Paulo, fervente cristiano divorato dal rimorso, racconta al
giovane Andres di un antico delitto di cui lui e Baldo si sono macchiati. Dalla
psicosi generata dallambiente surreale della foresta e dai fumi dellalcol nasce
una colluttazione da cui il solo Andres esce vivo. Da qui in avanti è un lento,
implacabile susseguirsi di conseguenze per il minatore sopravvissuto e per
Mariposa (Hazel Orencio), la figlia di Baldo affetta da disturbi mentali,
che si trova invischiata nelle sadiche manovre del Sergente che controlla
lisola, animato da unavidità senza limiti e un disprezzo totale per la vita
altrui.
Una scena del film © Biennale Cinema 2020 Girato in uno splendido, contrastato bianco e nero, Genus
Pan non avvicina mai troppo lo spettatore ai personaggi lasciando quasi
sempre linquadratura fissa, attraverso splendidi tableaux vivants in
cui la natura immobile e impassibile si staglia contro il vagare delluomo nei
suoi fatui sforzi per sopravvivere. Solo nelle scene che mostrano la falsa
ricostruzione del duplice omicidio da parte del sergente la macchina da presa
si muove, adottando gli stilemi del documentario. Una scelta con cui il regista
sembra volerci ammonire sulla pericolosità di attribuire dosi di verità a
determinate scelte stilistiche: non sempre locchio della cinepresa può
mostrare il male delluomo, che trova invece la sua più giusta collocazione nel
fuoricampo. Come nellinquadratura conclusiva, dove latrocità del gesto si
cela oltre uno sguardo contemplativo sul paesaggio sinistramente pacifico: una
scelta che non addolcisce la visione, ma anzi la inasprisce. Una scena del film
Dietro una facciata folkloristica e a tratti quasi
pasoliniana nel mettere in luce laspetto bestiale delluomo, Genus Pan
rappresenta un ulteriore tassello di quel grande affresco sulla società
contemporanea filippina e sulle sue brutalità che è il filo rosso dellintera
filmografia di Diaz, autore amato a Venezia (e non solo) per la maestria nel
coniugare limpegno civile a un totale controllo del mezzo filmico e a una
raffinatezza stilistica che ha pochi eguali nel panorama di oggi.
|
|