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Demagogia e democrazia

di Caterina Barone
  I cavalieri
Data di pubblicazione su web 07/07/2018  

È lo sberleffo “tragicamente” comico dei Cavalieri di Aristofane (in scena fino all’8 luglio) a concludere la trilogia dedicata alla scena del potere al Teatro Greco di Siracusa, dopo Eracle di Euripide e Edipo a Colono di Sofocle LINK. C’è del tragico, infatti, nel constatare come la denuncia del drammaturgo ateniese del V secolo a.C. non abbia perso nulla della sua puntuale ed esplosiva critica della gestione del potere in una società democratica. Ignoranza, corruzione, malafede, ricerca dell’utilità personale: in sintesi, tutti i vizi di allora sono radicati ancora oggi nel tessuto della società contemporanea.

Così smaccata è la corrispondenza che il regista Giampiero Solari, giustamente, non ha ritenuto necessario inserire nessun palese riferimento all’attualità, come invece aveva fatto Ronconi nel 2002 collocando sulla scena delle Rane le caricature di tre importanti uomini di governo dell’epoca, Berlusconi, Bossi e Fini, salvo poi ritirarle per l’intervento censorio dei politici locali.

Era giovanissimo (all’incirca ventenne) Aristofane quando portò in scena Cavalieri nel 424 a.C. Aveva esordito tre anni prima, nel 427, con i Banchettanti, cui seguirono i Babilonesi con i quali probabilmente vinse al festival delle Dionisie, che gli costarono però una denuncia per iniziativa dell’esponente democratico Cleone e un processo. Tuttavia egli non esita a scagliarsi di nuovo contro quel potente uomo politico e lo fa presentandosi al pubblico come didaskalos, “regista” per la prima volta di una sua commedia.

Un momento dello spettacolo
© Franca Centaro

L’umanità che popola Cavalieri è della peggior specie: intorno a Demo, il popolo, rappresentato come vecchio e rimbambito, pronto a credere a chi lo adula smaccatamente, si affollano personaggi di basso profilo morale. Primo fra tutti Paflagone, maschera sotto la quale è celato Cleone, «un mestatore di fango, il peggio dei maneggioni» che gli scodinzola intorno, raggirandolo, come raccontano i servi, Demostene e Nicia, determinati a liberare il loro padrone dalla soggezione a un simile, turpe individuo.

Il rimedio che trovano, tuttavia, non è confortante: sarà un povero salsicciaio, ignorante e rozzo, a farsi antagonista di Paflagone. La sua conclamata ignoranza – anche se il fatto di non essere del tutto analfabeta è un elemento a suo sfavore nella corsa al potere – lo rende un candidato vincente e gli consentirà di spuntarla nella contesa per il ruolo di “primo ministro”. Nella sostanza la situazione politica non cambierà affatto ed è seguendo questa linea interpretativa che il regista, nell’adattamento del testo operato con Riccardo Favaro e Pablo Solari, ha tagliato nel finale l’esito positivo della vicenda eliminando la personificazione della Tregua, auspicio di pace e prosperità, e chiudendo invece lo spettacolo con alcune battute, ampiamente rimaneggiate, della parabasi affidate qui a Demo in una sorta di captatio benevolentiae nei confronti del pubblico cui si chiede l’applauso. 

La traduzione di Olimpia Imperio assicura anche quest’anno, come fu per quella delle Rane della scorsa edizione siracusana, rigore filologico e capacità di modulare in un linguaggio moderno, ma non semplicistico, la variegata gamma di toni e livelli contenutistici dell’originale, destreggiandosi con eleganza nel ginepraio del turpiloquio aristofanesco e fornendo un testo di agevole fruizione e di spessore semantico che però è stato purtroppo abbondantemente sfrondato e non invece scandagliato da Solari.

La lettura piana e senza scosse della commedia proposta dal regista ha come punto di forza la presenza del musicista Roy Paci nel ruolo del Corifeo. Le interpretazioni jazzistiche del trombettista siciliano hanno fatto da guida alle evoluzioni del Coro dettandone tempi e ritmi, sottolineandone i risvolti grotteschi, dando forza alle battute corrosive di Aristofane. Trascinante e puntuale nei suoi interventi, Roy Paci ha messo la sua sapienza musicale al servizio dello spettacolo dando risalto allo spirito satirico e impietoso della commedia.


Un momento dello spettacolo 
© Maria Pia Ballarino

I Cavalieri del Coro (interpretati egregiamente dagli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico) sono personaggi che sembrano usciti dalla fantasia di un pittore espressionista: indossano gigantesche maschere picassiane, hanno corpi deformati dall’ingordigia e si muovono ondeggiando su moderni coturni caricaturali, in una sorta di moderno ballo di gruppo secondo gli schemi disegnati dalle coreografie di Lara Guidetti. Gli abiti che indossano, fantasiosa creazione di Daniela Cernigliaro, sono colorati ed eterogenei, comica distorsione di un quotidiano vestire. Ai loro piedi brulica un’umanità reietta, che striscia al suolo, stracciona e informe, incapace di emanciparsi da quella situazione subalterna: non sarà certo il Salsicciaio ad apportare un cambiamento nelle loro vite. 

E in questa babele di volumi e colori colpisce la scelta di Solari di collocare l’azione non in un paesaggio urbano, ma agreste, con siepi e alberi (la scenografia è di Angelo Linzalata) che a un certo momento prendono vita e si muovono verso gli spettatori creando un’immagine di scespiriana memoria, dove però l’incubo è surreale e grottesco. 

Misura e scioltezza vanno riconosciute agli attori protagonisti della vicenda: Giovanni Esposito nella parte dell’intraprendente servo Demostene al fianco dello scattante Sergio Mancinelli, Nicia; Francesco Pannofino che presta voce e corpo robusti al Salsicciaio, antagonista del Paflagone, affidato alla melliflua petulanza di Gigio Alberti; e infine Antonio Catania, Demo più astuto che grullo.



I cavalieri
cast cast & credits
 


Francesco Pannofino in un momento dello spettacolo visto al Teatro Greco di Siracusa nell'ambito del 54° Festival del Teatro Antico

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