È
lo sberleffo “tragicamente” comico dei Cavalieri
di Aristofane (in scena fino all8 luglio) a concludere la trilogia dedicata
alla scena del potere al Teatro Greco
di Siracusa, dopo Eracle di Euripide e Edipo a Colono di Sofocle
LINK. Cè del tragico, infatti, nel constatare
come la denuncia del drammaturgo ateniese del V secolo a.C. non abbia perso
nulla della sua puntuale ed esplosiva critica della gestione del potere in una
società democratica. Ignoranza, corruzione, malafede, ricerca dellutilità personale: in sintesi, tutti i vizi di allora sono radicati ancora
oggi nel tessuto della società contemporanea.
Così
smaccata è la corrispondenza che il regista Giampiero Solari, giustamente, non ha ritenuto necessario inserire nessun
palese riferimento allattualità, come invece aveva fatto Ronconi nel 2002 collocando sulla scena delle Rane le caricature di tre importanti uomini di governo dellepoca, Berlusconi, Bossi e Fini, salvo poi
ritirarle per lintervento censorio dei politici locali.
Era
giovanissimo (allincirca ventenne) Aristofane
quando portò in scena Cavalieri nel
424 a.C. Aveva esordito tre anni prima, nel 427, con i Banchettanti, cui seguirono i Babilonesi
con i quali probabilmente vinse al festival delle Dionisie, che gli costarono
però una denuncia per iniziativa dellesponente democratico Cleone e un processo. Tuttavia egli non
esita a scagliarsi di nuovo contro quel potente uomo politico e lo fa
presentandosi al pubblico come didaskalos, “regista” per la prima volta di una
sua commedia.
Un momento dello spettacolo © Franca Centaro Lumanità
che popola Cavalieri è della peggior
specie: intorno a Demo, il popolo, rappresentato come vecchio e rimbambito,
pronto a credere a chi lo adula smaccatamente, si affollano personaggi di basso
profilo morale. Primo fra tutti Paflagone, maschera sotto la quale è celato
Cleone, «un mestatore di fango, il peggio dei maneggioni» che gli scodinzola
intorno, raggirandolo, come raccontano i servi, Demostene e Nicia, determinati
a liberare il loro padrone dalla soggezione a un simile, turpe individuo.
Il
rimedio che trovano, tuttavia, non è confortante: sarà un povero salsicciaio,
ignorante e rozzo, a farsi antagonista di Paflagone. La sua conclamata
ignoranza – anche se il fatto di non essere del tutto analfabeta è un elemento
a suo sfavore nella corsa al potere – lo rende un candidato vincente e gli
consentirà di spuntarla nella contesa per il ruolo di “primo ministro”. Nella
sostanza la situazione politica non cambierà affatto ed è seguendo questa linea
interpretativa che il regista, nelladattamento del testo operato con Riccardo Favaro e Pablo Solari, ha tagliato nel finale lesito positivo della vicenda
eliminando la personificazione della Tregua, auspicio di pace e prosperità, e chiudendo
invece lo spettacolo con alcune battute, ampiamente rimaneggiate, della
parabasi affidate
qui a Demo in una sorta di captatio
benevolentiae nei confronti del pubblico cui si chiede lapplauso.
La
traduzione di Olimpia Imperio
assicura anche questanno, come fu per quella delle Rane della
scorsa edizione siracusana, rigore filologico e capacità di modulare in un
linguaggio moderno, ma non semplicistico, la variegata gamma di toni e livelli contenutistici
delloriginale, destreggiandosi con eleganza nel ginepraio del turpiloquio
aristofanesco e fornendo un testo di agevole fruizione e di spessore semantico
che però è stato purtroppo abbondantemente sfrondato e non invece scandagliato
da Solari. La
lettura piana e senza scosse della commedia proposta dal regista ha come punto
di forza la presenza del musicista Roy
Paci nel ruolo del Corifeo. Le interpretazioni jazzistiche del trombettista
siciliano hanno fatto da guida alle evoluzioni del Coro dettandone tempi e
ritmi, sottolineandone i risvolti grotteschi, dando forza alle battute
corrosive di Aristofane. Trascinante e puntuale nei suoi interventi, Roy Paci
ha messo la sua sapienza musicale al servizio dello spettacolo dando risalto allo
spirito satirico e impietoso della commedia.
Un momento dello spettacolo © Maria Pia Ballarino
I
Cavalieri del Coro (interpretati egregiamente dagli allievi dellAccademia dArte
del Dramma Antico) sono personaggi che sembrano usciti dalla fantasia di un
pittore espressionista: indossano gigantesche maschere picassiane, hanno corpi
deformati dallingordigia e si muovono ondeggiando su moderni coturni
caricaturali, in una sorta di moderno ballo di gruppo secondo gli schemi
disegnati dalle coreografie di Lara
Guidetti. Gli abiti che indossano, fantasiosa creazione di Daniela Cernigliaro, sono colorati ed
eterogenei, comica distorsione di un quotidiano vestire. Ai loro piedi brulica
unumanità reietta, che striscia al suolo, stracciona e informe, incapace di
emanciparsi da quella situazione subalterna: non sarà certo il Salsicciaio ad
apportare un cambiamento nelle loro vite.
E
in questa babele di volumi e colori colpisce la scelta di Solari di collocare
lazione non in un paesaggio urbano, ma agreste, con siepi e alberi (la
scenografia è di Angelo Linzalata)
che a un certo momento prendono vita e si muovono verso gli spettatori creando
unimmagine di scespiriana memoria, dove però lincubo è surreale e grottesco.
Misura
e scioltezza vanno riconosciute agli attori protagonisti della vicenda: Giovanni Esposito nella parte
dellintraprendente servo Demostene al fianco dello scattante Sergio Mancinelli, Nicia; Francesco Pannofino che presta voce e
corpo robusti al Salsicciaio, antagonista del Paflagone, affidato alla melliflua
petulanza di Gigio Alberti; e infine Antonio
Catania, Demo più astuto che grullo.
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