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La Storia: una questione di genere

di Raffaele Pavoni
  Sweet Country
Data di pubblicazione su web 10/09/2017  

È stato presentato, in competizione ufficiale, l’ultimo film dell’australiano Warwick Thornton. Classe 1970, il regista si è fatto notare in Europa principalmente nel 2009 per Samson & Deliah, storia d’amore ambientata in una remota comunità aborigena per la quale è stato insignito della Warwick Camera d’Or (Premio per la Migliore Opera Prima) al Festival di Cannes dello stesso anno.

Thornton ha in seguito approfondito le problematiche e le tradizioni delle comunità aborigene nel  progetto Art+Soul (2010) e nel film a episodi Darkside (2013),  per approdare infine a questo film storico, sotto forma di western, intitolato ironicamente Sweet Country. I fatti, ispirati a una storia vera, sono ambientati nell’entroterra australiano settentrionale. L’anno è il 1929: l’Australia fa ancora parte del Commonwealth britannico, ma al suo interno prende forma un conflitto culturale destinato, in alcuni casi, a sfociare nel sangue. L’aborigeno Sam Kelly (Hamilton Morris), guardiano di bestiame, è vessato dal proprietario terriero Harry March (Ewen Leslie) e costretto a concedergli perfino sua moglie Lizzie (Natassia Gorey-Furber). Tra i due scoppia un diverbio che degenera in un conflitto a fuoco, nel quale Harry rimane ucciso. Costretti a fuggire nella natura incontaminata, Sam e Lizzie decideranno di costituirsi solo dopo la notizia che la donna è incinta e si sottoporranno a un regolare processo.


Una scena del film
Una scena del film

Nell’epopea western di Thornton c’è tutto il “brodo” di cultura che ha contraddistinto i paesi decolonizzati (o in fase di decolonizzazione) del Novecento: da una parte uno stato di diritto, sul modello illuminista, che pretende di regolare con la legge l’uguaglianza di oppressi e oppressori; dall’altra il persistente razzismo di questi ultimi, tale da vanificare qualunque disposizione proveniente dalla lontana Corona britannica.

Nello spaccato che Sweet Country propone c’è molta Storia, ma soprattutto c’è molta cinefilia. Non sempre è un bene se l’ambizione è quella – come pare di capire dalle parole del regista – di realizzare un film di denuncia, provocatorio, su argomenti particolarmente tabù nella società australiana contemporanea (si tratta, d’altronde, di un passato relativamente recente). Magnifiche le vedute paesaggistiche alla Terrence Malick (tutto il film è stato girato sulla catena montuosa delle MacDonnell Ranges, vicino ad Alice Springs, dove l’autore è cresciuto): una bellezza cui i personaggi sembrano non appartenere. Si pensi, tra tutte, alla scena del bianco lago di sale, nel quale il Sergente Fletcher (Bryan Brown) si lancia al galoppo in una caccia impossibile e cieca dettata solo dall’orgoglio.


Una scena del film
Una scena del film

Ci sono i brevi flashbacks alla Sam Peckinpah, da cui il regista sembra mutuare anche l’ostinato rifiuto dei primi piani (in favore di una visione corale),  oltre alla tragica insensatezza del gesto con cui si conclude il cammino del protagonista. Si potrebbe tirare in ballo anche il Django tarantiniano (2013), volendo, o gli antesignani film di Sergio Corbucci e Nello Rossati.

Quali che siano i riferimenti, è nello spiccato citazionismo che si ravvisa, forse, la maggior stonatura del film, per il resto di buona caratura. Da una parte Thornton gioca con gli stilemi del genere che, a partire dalla “invenzione” del “post-moderno”, sembra essere usato solo per essere “svuotato”, “ribaltato”, “messo in discussione”. D’altra parte l’autore sembra ambire a uno sguardo storico e di denuncia. Il combinato disposto è rivelatore e ci porta a riflettere sul sottile confine che separa Storia e cinefilia.

Thornton è un cinefilo che si serve del genere e dei suoi topoi per rievocare il passato del proprio paese: il mito della frontiera, la sottomissione di un popolo, gli espropri di terreni, etc. Riducendo la Storia alle regole di un genere il film perde efficacia. Sembrerebbe trattarsi di un passo indietro rispetto al folgorante Samson & Eliah: lì avevamo uno sguardo “bianco” sulle vicende di due giovani aborigeni che cercano di rifarsi una vita in città, quindi una convincente dinamica dialettica tra approccio antropologico-documentaristico e romanzo di formazione.


Una scena del film
Una scena del film

Quell’originalità sembra qui offuscata. La rarefazione del registro espressivo, fatta di continui rinvii dell’azione (pochi dialoghi e molto nervosi, lunghi silenzi appena riempiti dal vento, pose ieratiche), anziché dar vita a una palingenesi dei personaggi si perde nel terreno scivoloso del film di costume. L’attenzione alla composizione delle immagini e la distanza dagli interpreti non permette di apprezzare a fondo la recitazione degli attori. 

Il regista ha dichiarato di avere scelto «un genere accessibile come il western perché il pubblico potesse entrare nella storia e venirne affascinato, in modo che comprendesse i problemi che un popolo occupato si trova ad affrontare». Si tratta di un intento nobile, e l’ambientazione è inedita per il pubblico europeo. Però usare un genere cinematografico in funzione di mediazione tra lo spettatore e la Storia può rendere quest’ultima più familiare, ma anche più lontana, più fasulla, laddove la ricerca di una verità storica sarebbe stata un sicuro punto di forza anche commerciale. 

Sweet Country, in definitiva, rappresenta un western onesto, formalmente convincente, ma che parte da un assunto di fondo sbagliato: avvicinare la propria Storia a un pubblico europeo e americano e interpretarla attraverso i generi cinematografici codificati.

Nel suo tentativo di piacere Sweet Country perde ogni connotazione geografica specifica, per diventare nient’altro che un buon western che chiunque, in qualunque angolo del globo, avrebbe potuto girare.  



Sweet Country
cast cast & credits
 

La locandina
La locandina



 
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