È
stato presentato, in competizione ufficiale, lultimo film dellaustraliano Warwick Thornton. Classe 1970, il
regista si è fatto notare in Europa principalmente nel 2009 per Samson & Deliah, storia damore
ambientata in una remota comunità aborigena per la quale è stato insignito
della Warwick Camera dOr (Premio per la Migliore Opera Prima) al Festival di
Cannes dello stesso anno. Thornton
ha in seguito approfondito le problematiche e le tradizioni delle comunità
aborigene nel progetto Art+Soul (2010) e nel film a episodi Darkside (2013), per approdare infine a questo film storico,
sotto forma di western, intitolato
ironicamente Sweet Country. I fatti,
ispirati a una storia vera, sono ambientati nellentroterra australiano
settentrionale. Lanno è il 1929: lAustralia fa ancora parte del Commonwealth
britannico, ma al suo interno prende forma un conflitto culturale destinato, in
alcuni casi, a sfociare nel sangue. Laborigeno Sam Kelly (Hamilton Morris), guardiano di bestiame, è vessato dal proprietario
terriero Harry March (Ewen Leslie) e
costretto a concedergli perfino sua moglie Lizzie (Natassia Gorey-Furber). Tra i due scoppia un diverbio che degenera in
un conflitto a fuoco, nel quale Harry rimane ucciso. Costretti a fuggire nella
natura incontaminata, Sam e Lizzie decideranno di costituirsi solo dopo la
notizia che la donna è incinta e si sottoporranno a un regolare processo.
Una scena del film
Nellepopea
western di Thornton cè tutto il “brodo”
di cultura che ha contraddistinto i paesi decolonizzati (o in fase di
decolonizzazione) del Novecento: da una parte uno stato di diritto, sul modello
illuminista, che pretende di regolare con la legge luguaglianza di oppressi e
oppressori; dallaltra il persistente razzismo di questi ultimi, tale da
vanificare qualunque disposizione proveniente dalla lontana Corona britannica.
Nello
spaccato che Sweet Country propone
cè molta Storia, ma soprattutto cè molta cinefilia. Non sempre è un bene se lambizione
è quella – come pare di capire dalle parole del regista – di realizzare un film
di denuncia, provocatorio, su argomenti particolarmente tabù nella società
australiana contemporanea (si tratta, daltronde, di un passato relativamente
recente). Magnifiche le vedute paesaggistiche alla Terrence Malick (tutto il film è stato girato sulla catena montuosa
delle MacDonnell Ranges, vicino ad Alice Springs, dove lautore è cresciuto):
una bellezza cui i personaggi sembrano non appartenere. Si pensi, tra tutte,
alla scena del bianco lago di sale, nel quale il Sergente Fletcher (Bryan Brown) si lancia al galoppo in
una caccia impossibile e cieca dettata solo dallorgoglio.
Una scena del film
Ci
sono i brevi flashbacks alla Sam Peckinpah, da cui il regista sembra
mutuare anche lostinato rifiuto dei primi piani (in favore di una visione
corale), oltre alla tragica insensatezza
del gesto con cui si conclude il cammino del protagonista. Si potrebbe tirare in
ballo anche il Django tarantiniano
(2013), volendo, o gli antesignani film di Sergio
Corbucci e Nello Rossati.
Quali
che siano i riferimenti, è nello spiccato citazionismo che si ravvisa, forse,
la maggior stonatura del film, per il resto di buona caratura. Da una parte
Thornton gioca con gli stilemi del genere che, a partire dalla “invenzione” del
“post-moderno”, sembra essere usato solo per essere “svuotato”, “ribaltato”,
“messo in discussione”. Daltra parte lautore sembra ambire a uno sguardo
storico e di denuncia. Il combinato disposto è rivelatore e ci porta a
riflettere sul sottile confine che separa Storia e cinefilia. Thornton
è un cinefilo che si serve del genere e dei suoi topoi per rievocare il passato del proprio paese: il mito della
frontiera, la sottomissione di un popolo, gli espropri di terreni, etc. Riducendo
la Storia alle regole di un genere il film perde efficacia. Sembrerebbe
trattarsi di un passo indietro rispetto al folgorante Samson & Eliah: lì avevamo uno sguardo “bianco” sulle vicende
di due giovani aborigeni che cercano di rifarsi una vita in città, quindi una
convincente dinamica dialettica tra approccio antropologico-documentaristico e
romanzo di formazione.
Una scena del film Quelloriginalità
sembra qui offuscata. La rarefazione del registro espressivo, fatta di continui
rinvii dellazione (pochi dialoghi e molto nervosi, lunghi silenzi appena
riempiti dal vento, pose ieratiche), anziché dar vita a una palingenesi dei
personaggi si perde nel terreno scivoloso del film di costume. Lattenzione
alla composizione delle immagini e la distanza dagli interpreti non permette di
apprezzare a fondo la recitazione degli attori.
Il
regista ha dichiarato di avere scelto «un genere accessibile come il western perché il pubblico potesse
entrare nella storia e venirne affascinato, in modo che comprendesse i problemi
che un popolo occupato si trova ad affrontare». Si tratta di un intento nobile,
e lambientazione è inedita per il pubblico europeo. Però usare un genere
cinematografico in funzione di mediazione tra lo spettatore e la Storia può
rendere questultima più familiare, ma anche più lontana, più fasulla, laddove
la ricerca di una verità storica sarebbe stata un sicuro punto di forza anche
commerciale.
Sweet Country, in definitiva,
rappresenta un western onesto,
formalmente convincente, ma che parte da un assunto di fondo sbagliato:
avvicinare la propria Storia a un pubblico europeo e americano e interpretarla
attraverso i generi cinematografici codificati. Nel
suo tentativo di piacere Sweet Country perde ogni connotazione geografica specifica, per
diventare nientaltro che un buon western
che chiunque, in qualunque angolo del globo, avrebbe potuto girare.
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