Appena visto il film abbiamo controllato la data
di nascita del regista e purtroppo la fastidiosa idea instillata
dallesorbitante uso di immagini erotiche (quasi esclusivamente di quello che
va di moda chiamare lato B) che pervade le tre ore di visione ha confermato la
sensazione che la forza ispiratrice di questopera affondi le sue radici in un
personalissimo demone meridiano (o pre-serale). La sensuale opulenza, mai
disgiunta da un gioioso sguardo ammirativo, della bellezza femminile dei suoi
precedenti film qui gira a vuoto. Dallinizio alla fine, ahinoi protratta di
oltre centottanta minuti. Una lunghezza presuntuosa e provocatoria, peraltro
totalmente ingiustificata da una ripetitività che ad ogni passo poteva
suggerire provvidenziali sforbiciate.
Una scena del film Cosa
è dunque questultima prova dellammirevole autore di La faute à Voltaire (2000, a Venezia, strameritato premio opera
prima), di Lesquive (2005, premio
César), di Cous cous (2007, Leone
dargento sempre a Venezia), di La vie
dAdèle (2013 Palma doro al festival di Cannes), di Venus noire (2010, sempre a Venezia)? Dopo il mal riuscito
tentativo di dare con questopera un respiro storiografico a un talento che è
essenzialmente autobiografico, con questo Mektoub
(in arabo, più o meno: Destino)
Kechiche ritorna sui temi più consueti e ritrova in una narrazione autobiografica
il suo naturale terreno. Cosa pensare infatti, nonostante vigorose smentite,
della storia di un ragazzo bello e talentuoso (confermiamo entrambe le doti del
regista) che, lasciata la casa materna nel sud della Francia per studiare a
Parigi, ritorna al paesello per una spensierata vacanza estiva, munito di
macchina fotografica e pronto a fissare con quella la sua visione del
mondo?
Visione
del mondo che si richiama alla gioiosa carnalità di Cous Cous (con inequivocabile citazione in apertura) qui
moltiplicata al parossismo in un vagabondare diurno e notturno spensierato tra
schermaglie improvvisate, accendersi e spegnersi di amori estivi, golosità di
pasti e amori voraci, flebilissimi
intrecci e un finale, affrettato e incerto, che vuole essere inequivocabilmente
aperto onde consentire il futuro aggancio ad altri due atti di una promessa
trilogia.
Ma i protagonisti di questa “bella estate” non hanno nulla a che vedere con gli smarrimenti di una
commedia di Marivaux, né con la
leggerezza degli impalpabili amori di Eric
Rohmer e nemmeno con lingenuità bonaria e provinciale delle creature di Fellini. Quella macchina da presa che,
con la consueta maestria, aggredisce i corpi e costruisce relazioni di sguardi,
tradisce i suoi personaggi sovrapponendo
ai loro occhi puri una persistente, non gradevole, ossessione voyeuristica: uno
sguardo pesante che appanna quello che, in questo romanzo di formazione,
dovrebbe rappresentare un inno alla vita. Né la pur emozionante scena della
nascita di un agnellino, ripresa dal protagonista con la sua macchina
fotografica, né linsistita colonna sonora prevalentemente mozartiana riescono
a dare senso e leggerezza a questo catalogo di movimenti sussultori.
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Mektoub, My Love: Canto uno
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Il regista Abdellatif Kechiche
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