Dopo Medeas (presentato
quattro anni fa nella sezione Orizzonti)
Andrea Pallaoro torna a Venezia
portando in scena una sorta di moderna Antigone, una donna “murata viva” dal
suo stesso senso del dovere. La sua apparente devozione verso il marito, in
carcere per un reato molto grave (pedofilia?), causa un insanabile distacco da
parte del figlio, che rifiuta ogni contatto con lei e non ne capisce
quellostinata e, per lui, complice vicinanza. Nonostante i suoi piccoli
tentativi di “evasione” – la scuola di teatro, il lavoro di collaboratrice
domestica, il rapporto con il bambino cieco della famiglia in cui lavora, il
nuoto in piscina e anche il suo cane –, Hannah non riesce a sfuggire ai rancori
(anche i suoi) e al giudizio degli altri, rimanendone irrimediabilmente
ingabbiata.
Una scena del film
Hannah è il ritratto tragico
di una donna imperscrutabile, che giunta al tramonto della propria esistenza
non ha più voglia di fare bilanci e si lascia quasi travolgere dagli eventi,
perseguendo solo una personale idea di decoro che decide di portare fino alle
estreme conseguenze.
Charlotte Rampling è il volto e
soprattutto il corpo di Hannah, sul quale il regista indugia per tutta la
durata del film (le inquadrature in cui non è presente si contano sulla punta
delle dita). Un volto e un corpo naturalmente (e magnificamente) invecchiati,
in cui i segni del tempo sono evidenti e inequivocabili e che lattrice ha
ancora il coraggio di mostrare nella sua completa nudità, offrendosi senza
infingimenti alla macchina da presa quale vero esempio di cinema come “morte al
lavoro” di cui parlava Cocteau.
Una scena del film
Regista apolide, Pallaoro (nato a Trento, ma
vive stabilmente negli Stati Uniti) sostituisce il caldo e i grandi spazi, “inclini”
al tradimento, del paesaggio messicano di Medeas
con lindecifrabile e uggioso grigiore degli interni di una rigida e coerente
Bruxelles; eppure in questo film lanello debole è rappresentato proprio dalle
scelte registiche e drammaturgiche. Colto da eccesso di zelo Pallaoro
fraintende, in senso iperbolico, la lezione neorealista per cui il pubblico
deve essere libero di guardare e di interpretare ciò che circonda il
personaggio al pari del personaggio stesso. Infatti se il modello di
riferimento è chiaramente quello del ciclo dei film di Rossellini con Ingrid
Bergman, dove si viene calati nello stesso smarrimento della protagonista,
persa dentro realtà a lei totalmente estranee (Stromboli, Napoli, la Roma dei
baraccati), il film pecca vistosamente di presunzione. Infatti crea intorno a Hannah
un vero e proprio labirinto di non detto e non mostrato, dove lunico che
finisce per smarrirsi è proprio lo spettatore, al quale vengono negate le
coordinate (anche minime) per poter cercare di entrare in sintonia con ciò che
vede sullo schermo, venendo distratto da tutti quegli interrogativi che il film
intenzionalmente gli presenta: perché il marito viene arrestato? chi sono
quelle persone che le telefonano o vengono a trovarla? che è successo con il
figlio? in definitiva chi è Hannah?
Una scena del film
Lo stesso spettatore si ritrova così a seguire
una donna con una storia tutta da ricostruire, la quale da un lato sembra
subire passivamente gli eventi e il crollo del suo mondo, ma dallaltro appare
evidentemente consapevole di ciò che la circonda. Ed è così che, man mano che
va avanti, il film perde lentamente il suo fascino fatto di allusioni, di
mistero, di rimandi al fuori campo, come forma eminentemente cinematografica di
confronto dialettico, di suggestione e di comprensione, svelando un meccanismo
e una scrittura precostituiti, attraverso quello che è corretto definire un
“eccesso” dautore. Però resiste come una roccia quel minimalismo espressivo
con cui Charlotte Rampling riesce a far percepire tutta
lamara dignità di Hannah, chiusa dentro leterna reversibilità del suo
palindromo chapliniano.
|
|