Il 4 novembre di ventanni fa il premier
israeliano Yitzhak Rabin veniva
ucciso da un giovane estremista di destra, fanatico religioso imbevuto di odio
per colui che, dopo essere stato capo di stato maggiore del vittorioso esercito
israeliano nella guerra che aveva annientato larmata egiziana, era diventato
un deciso assertore di una politica di pace che avvicinasse gli ebrei ai
palestinesi e, eletto per la seconda volta primo ministro, aveva poi firmato
nel 1993 insieme al leader palestinese Arafat
il trattato di Oslo, che prevedeva il riconoscimento dellOlp come interlocutore
privilegiato per la composizione dei dissensi territoriali e quindi avvicinandosi
al riconoscimento della Palestina. Patrocinato dallallora presidente degli
Stati Uniti Bill Clinton laccordo
era stato siglato con una stretta di mano immortalata da quella che sarebbe
diventata poi una delle foto simbolo del secondo dopoguerra.
Stretta di mano tra Arafat e Rabin alla presenza di Clinton
Lanno
dopo Rabin riceveva il premio Nobel per la pace, rafforzando quindi ancora più
il suo ruolo di mediatore. Lindiscusso prestigio mondiale era un elemento di
grande ansietà per gli estremisti e i coloni; in Israele partì una
violentissima campagna di odio della cui pericolosità Rabin non volle tener
conto. Presentatosi praticamente senza scorta (e avendo sempre rifiutato
giubbotti protettivi) fu ucciso alla fine di un oceanico incontro pacifista.
Lassassino fu immediatamente catturato. Il processo non fu esemplare, così
come non fu esemplare la condanna dellassassino. La commissione incaricata di
indagare ebbe poteri limitatissimi, e pure quelli usati con grande sobrietà. Sì
che i veri mandanti dellassassinio non furono mai rivelati. A distanza di
ventanni (e proprio a celebrazione delluomo e a monito per i suoi concittadini)
il regista Amos Gitai decide di
celebrare quel processo montando un docufilm accuratissimo che ripercorre, come
non seppero e non vollero fare le autorità del tempo, tutti gli errori, le
approssimazioni, le colpe che portarono alla tragedia epocale, allontanando
(per sempre? certo fino ad oggi) le prospettive di una pace che pareva vicina,
se non proprio a portata di mano.
Una scena del film
Intrecciando straordinari documenti darchivio,
stupefacenti testimonianze di coloro che non seppero o non vollero fare il loro lavoro di protezione
del premier e poi non seppero o non vollero aprire gli occhi nella ricerca dei
colpevoli, il regista scava nel territorio oscuro dellestremismo religioso e
anche di quello politico, indagando, più ancora che alla ricerca dei colpevoli,
alla ricerca delle cause di quella campagna dodio che portò al delitto di
quella sottocultura che intrecciava interessi dei coloni a fanatismi ancestrali
(la condanna a morte di Rabin vista come una prescrizione talmudica), a
spregiudicatezze politiche. Due anni dopo, alla fine della “reggenza” del vice
primo ministro Shimon Peres, la
destra di Netanyahu vinse le
elezioni democratiche. Ma ad Amos Gitai non interessa condurre lo spettatore a
condanne sommarie, al contrario gli importa che alla fine del percorso di
conoscenza, che guida con ferma maestria, non prevalga il
verdetto ma lo sgomento della coscienza individuale.
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Rabin, The Last Day
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La locandina del film
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