Oggi, almeno in Italia, è più un flatus vocis che un rimando a qualcosa di tangibile, più unidea generica che un riferimento circostanziato: si dice Ballo al Savoy e si pensa a Costa Azzurra, mariti fedifraghi, donnine allegre, camerieri lenoni e malmaritate in cerca di avventura o di rivalsa. Pochi, però, ricordano la vera fonte di questespressione dallinequivocabile sottotesto mondano e godereccio: loperetta eponima (Ball im Savoy) dellebreo ungherese Pál Ábrahám, su libretto di Alfred Grünwald e Fritz Löhner-Beda (una “ditta” non troppo dissimile, per obiettivi e traguardi, da quella Meilhac / Halévy in campo di opéra-bouffe francese), che approdò con esiti trionfali sui palcoscenici tedeschi e inglesi dei primi anni Trenta ed ebbe lonore di più duna trasposizione cinematografica.
Battezzata
a Berlino nel 1932, una manciata di mesi prima dellascesa nazionalsocialista, Ballo al Savoy lascia flirtare
loperetta con il musical, a
testimonianza della crisi – estetica, creativa e, forse, anche ideologica – che
attanagliava ormai il genere operettistico, figlio di unepoca che il primo
conflitto mondiale aveva di fatto esaurito. Le suggestioni extramitteleuropee,
dallAmerica Latina agli Stati Uniti, si fanno sempre più pressanti: lintreccio
– libertario, femminista e vagamente surreale – occhieggia più alla sophisticated comedy americana che ai
canoni rodati della pochade, e i
sempiterni ritmi ternari del valzer qui si alternano a quelli binari del tango
e ai quattro quarti del foxtrot. Ma
soprattutto, al Savoy, entra in scena il paso
doble (che diventa pure il nom de plume di uno dei protagonisti
della vicenda): danza che evoca la sfida tra toro e torero, fatta assurgere da Ábrahám
a vero motore drammaturgico della vicenda; e le schermaglie di tradimenti veri
e fittizi, chiamate a puntellare la trama, trovano perfetta replica in questo
ballo di sottomissione e di attacco.
Foto di scena di Harri Rospu
Lallestimento
realizzato allOpera Nazionale Estone di Tallinn è sfarzoso e di classe,
proprio come il bellissimo edificio teatrale dinizio Novecento che ospita lo
spettacolo. Nel curare non solo regia, scene e costumi, ma anche la
rielaborazione del libretto (loperetta è andata in scena in lingua estone con
sopratitoli in inglese), Mart Sander
sposta lazione dai primi anni Trenta al 1939: la seconda guerra mondiale è
alle porte, e quel sentore di finis
Austriae che, da Lehár a Kálmán, profumava loperetta ungherese dantan si trasforma in un senso della fine
ancor più epocale; dopo, sarà il Nuovo Mondo anziché la vecchia Europa a
dettare legge (e non solo a suon di danza), né sarà un caso se, scompaginando i
ranghi delle dramatis personae, in Ballo al Savoy il pubblico si affeziona
alla soubrette piuttosto che alla
primadonna.
Cuore
pulsante della commedia, infatti, è lamericana anticonformista Daisy assai più
della francese aristocratica Madeleine, per quanto spettino a questultima i
più cospicui oneri canori: un atto damore di Ábrahám verso gli Stati Uniti –
che di lì a poco lavrebbero accolto quale ebreo in fuga dalle persecuzioni
naziste – e, forse, pure un omaggio indiretto allo Strauss di Arianna a Nasso,
dove la comica Zerbinetta, notoriamente, strappa più applausi della tormentata
protagonista.
Ben
servito dalle coreografie di Ingmar
Jõela, fluidamente classiche e lontane anni luce da quel sentore di varietà
televisivo che caratterizza i balletti delle operette negli allestimenti
italiani, Sander impagina lo spettacolo con andamento cinematografico (la
partita a tennis che scorre durante louverture
sembra uscire da una pellicola di Cukor),
senza però cadere in trappole realistiche: la Nizza della vicenda, la Venezia
del viaggio di nozze evocato dalla coppia protagonista, lo stesso Savoy (che a
essere precisi si troverebbe ad Antibes) restano luoghi comuni o ambienti di
sogno, con tutte le loro convenzioni e stilizzazioni. E Lauri Sirp, sul podio della solidissima Orchestra dellOpera
Nazionale Estone, sigla una lettura musicale sapientemente shakerata nel far
dialogare languori melodici e ritmi sincopati, che combacia con landamento visivo
dello spettacolo raddoppiandone la plasticità. Foto di scena di Harri Rospu
Pirjo Püvi è una protagonista limpida nellemissione e
cristallina nellacuto, capace di trascolorare con pari icasticità dalla
sposina innamorata alla mangiauomini “vorrei ma non posso”; e le fa da
impeccabile contraltare la Daisy di Hanna-Liina
Võsa, sbarazzina nel canto,
scatenata nella danza, adorabile sempre. Il fronte dei protagonisti maschili
può contare invece su un elegante baritono lirico-brillante, quasi ai limiti
del tenore “corto”, come René Soom e
su un comico simpatico, ma piuttosto abborracciato musicalmente, come Märt Avandi, cui spetta di rinverdire
la maschera un po vieta del Bey turco poligamo e dongiovanni.
Rinomata
attrice estone, Merle Palmiste qui si fa onore anche come
cantante oltre a confermarsi commediante spiritosissima nella sua macchiettona
di sudamericana fatale (lineffabile Tangolita), con esilarante accento
baltico-iberico. Ma pure Jaak Jõekallas,
capace di pennellare senza eccessi caricaturali un personaggino tenero e
imbranato, e Tõnu Kilgas, con laplomb ironico che solo un autentico
maggiordomo da operetta può avere, appartengono alla categoria degli artisti
completi nella recitazione e nel canto. Su tutti aleggia una spolverata di
follia e una nube di malinconia: memori forse del destino di Ábrahám, che, dopo
tanti allori europei e americani, finì tristemente i suoi giorni in una clinica
per malattie mentali di Amburgo.
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