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Ultimo valzer a Nizza (e primo paso doble)

di Paolo Patrizi
  Ballo al Savoy
Data di pubblicazione su web 15/04/2015  

Oggi, almeno in Italia, è più un flatus vocis che un rimando a qualcosa di tangibile, più un’idea generica che un riferimento circostanziato: si dice Ballo al Savoy e si pensa a Costa Azzurra, mariti fedifraghi, donnine allegre, camerieri lenoni e malmaritate in cerca di avventura o di rivalsa. Pochi, però, ricordano la vera fonte di quest’espressione dall’inequivocabile sottotesto mondano e godereccio: l’operetta eponima (Ball im Savoy) dell’ebreo ungherese Pál Ábrahám, su libretto di Alfred Grünwald e Fritz Löhner-Beda (una “ditta” non troppo dissimile, per obiettivi e traguardi, da quella Meilhac / Halévy in campo di opéra-bouffe francese), che approdò con esiti trionfali sui palcoscenici tedeschi e inglesi dei primi anni Trenta ed ebbe l’onore di più d’una trasposizione cinematografica. 

Battezzata a Berlino nel 1932, una manciata di mesi prima dell’ascesa nazionalsocialista, Ballo al Savoy lascia flirtare l’operetta con il musical, a testimonianza della crisi – estetica, creativa e, forse, anche ideologica – che attanagliava ormai il genere operettistico, figlio di un’epoca che il primo conflitto mondiale aveva di fatto esaurito. Le suggestioni extramitteleuropee, dall’America Latina agli Stati Uniti, si fanno sempre più pressanti: l’intreccio – libertario, femminista e vagamente surreale – occhieggia più alla sophisticated comedy americana che ai canoni rodati della pochade, e i sempiterni ritmi ternari del valzer qui si alternano a quelli binari del tango e ai quattro quarti del foxtrot. Ma soprattutto, al Savoy, entra in scena il paso doble (che diventa pure il nom de plume di uno dei protagonisti della vicenda): danza che evoca la sfida tra toro e torero, fatta assurgere da Ábrahám a vero motore drammaturgico della vicenda; e le schermaglie di tradimenti veri e fittizi, chiamate a puntellare la trama, trovano perfetta replica in questo ballo di sottomissione e di attacco.


Foto di scena di Harri Rospu

L’allestimento realizzato all’Opera Nazionale Estone di Tallinn è sfarzoso e di classe, proprio come il bellissimo edificio teatrale d’inizio Novecento che ospita lo spettacolo. Nel curare non solo regia, scene e costumi, ma anche la rielaborazione del libretto (l’operetta è andata in scena in lingua estone con sopratitoli in inglese), Mart Sander sposta l’azione dai primi anni Trenta al 1939: la seconda guerra mondiale è alle porte, e quel sentore di finis Austriae che, da Lehár a Kálmán, profumava l’operetta ungherese d’antan si trasforma in un senso della fine ancor più epocale; dopo, sarà il Nuovo Mondo anziché la vecchia Europa a dettare legge (e non solo a suon di danza), né sarà un caso se, scompaginando i ranghi delle dramatis personae, in Ballo al Savoy il pubblico si affeziona alla soubrette piuttosto che alla primadonna.

Cuore pulsante della commedia, infatti, è l’americana anticonformista Daisy assai più della francese aristocratica Madeleine, per quanto spettino a quest’ultima i più cospicui oneri canori: un atto d’amore di Ábrahám verso gli Stati Uniti – che di lì a poco l’avrebbero accolto quale ebreo in fuga dalle persecuzioni naziste – e, forse, pure un omaggio indiretto allo Strauss di Arianna a Nasso, dove la comica Zerbinetta, notoriamente, strappa più applausi della tormentata protagonista.

Ben servito dalle coreografie di Ingmar Jõela, fluidamente classiche e lontane anni luce da quel sentore di varietà televisivo che caratterizza i balletti delle operette negli allestimenti italiani, Sander impagina lo spettacolo con andamento cinematografico (la partita a tennis che scorre durante l’ouverture sembra uscire da una pellicola di Cukor), senza però cadere in trappole realistiche: la Nizza della vicenda, la Venezia del viaggio di nozze evocato dalla coppia protagonista, lo stesso Savoy (che a essere precisi si troverebbe ad Antibes) restano luoghi comuni o ambienti di sogno, con tutte le loro convenzioni e stilizzazioni. E Lauri Sirp, sul podio della solidissima Orchestra dell’Opera Nazionale Estone, sigla una lettura musicale sapientemente shakerata nel far dialogare languori melodici e ritmi sincopati, che combacia con l’andamento visivo dello spettacolo raddoppiandone la plasticità.


Foto di scena di Harri Rospu

Pirjo Püvi è una protagonista limpida nell’emissione e cristallina nell’acuto, capace di trascolorare con pari icasticità dalla sposina innamorata alla mangiauomini “vorrei ma non posso”; e le fa da impeccabile contraltare la Daisy di Hanna-Liina Võsa, sbarazzina nel canto, scatenata nella danza, adorabile sempre. Il fronte dei protagonisti maschili può contare invece su un elegante baritono lirico-brillante, quasi ai limiti del tenore “corto”, come René Soom e su un comico simpatico, ma piuttosto abborracciato musicalmente, come Märt Avandi, cui spetta di rinverdire la maschera un po’ vieta del Bey turco poligamo e dongiovanni.

Rinomata attrice estone, Merle Palmiste qui si fa onore anche come cantante oltre a confermarsi commediante spiritosissima nella sua macchiettona di sudamericana fatale (l’ineffabile Tangolita), con esilarante accento baltico-iberico. Ma pure Jaak Jõekallas, capace di pennellare senza eccessi caricaturali un personaggino tenero e imbranato, e Tõnu Kilgas, con l’aplomb ironico che solo un autentico maggiordomo da operetta può avere, appartengono alla categoria degli artisti completi nella recitazione e nel canto. Su tutti aleggia una spolverata di follia e una nube di malinconia: memori forse del destino di Ábrahám, che, dopo tanti allori europei e americani, finì tristemente i suoi giorni in una clinica per malattie mentali di Amburgo.




Ballo al Savoy
Operetta in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama



 
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