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Tempi moderni

di Vincenzo Borghetti
  Fidelio
Data di pubblicazione su web 16/12/2014  

 

Se fosse stato Verdi le cose non sarebbero andate così lisce. Nei giorni precedenti alla prima giravano indiscrezioni sull’allestimento di Deborah Warner (regia), e si sapeva che questo Fidelio sarebbe stato ambientato ai nostri giorni e non nella Spagna del XVIII secolo, come vorrebbe il libretto. Al contrario di quanto accaduto l’anno scorso con La traviata di Dmitri Tcherniakov (vedi recensione), nessuno, però, si è scaldato più di tanto. Beethoven non è Verdi. Questo significa che, se la regia lavora sull’aspetto visivo/teatrale dell’opera, non si rischia il vilipendio all’identità nazionale. E neppure quello ad un padre della musica classica universalmente riconosciuto, visto che anche gli ammiratori più sfegatati sono disposti ad ammettere che a Beethoven l’opera fosse meno congeniale di altri generi musicali. Inoltre Fidelio non è La traviata. Cioè, per quanto i cultori del melodramma siano da settimane presi dal dibattito sui pro e i contro dell’inaugurazione della Scala, Fidelio offre loro molti meno spunti di discussione di altre opere di repertorio, specie se italiane, meglio ancora se belcantistiche (anche solo un po’, come La traviata, per l’appunto). Del resto Fidelio non ha avuto una significativa storia esecutiva in Italia (alla Scala la portò per primo Toscanini nel 1927), e quando è stata messa in scena, è stato fatto una volta ogni tanto, nei grandi teatri, con grandi interpreti stranieri, in genere già affermati in quest’opera. Molto bravi, molto applauditi, ma distanti; distanti come l’opera che rappresentavano: sia gli uni sia l’altra a loro modo diversi rispetto ai titoli, e rispetto alle tipologie di interpreti su cui si fondava e ancora si fonda in gran parte la vita operistica italiana. Se la regia fa le cose troppo ‘moderne’, alla fine, col Fidelio e con tante opere considerate ‘altre’, alla Scala non se la prendono mai troppo. Oppure, come nel caso del Fidelio di quest’anno non se la prendono affatto.


Un momento dello spettacolo
Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano 

Chissà che cosa sarebbe successo se, al posto di Fidelio, la Scala avesse inaugurato la stagione 2015 con I Lombardi alla prima crociata e con una regia simile. Me lo chiedo perché, sebbene la comunicazione dell’evento abbia puntato sugli aspetti innovativi (e quindi chiacchierabili) della regia, lo spettacolo non è di quelli che pestano i calli ai loggionisti, nemmeno a quelli più reazionari, nonostante col Fidelio questi siano molto meno sensibili che con altre opere. È vero, Deborah Warner ha spostato l’azione ai giorni nostri, ha riscritto per questo parte dei dialoghi parlati, ha immaginato la prigione di Don Pizarro come un’area industriale dismessa, possente e fatiscente insieme, e ha fatto dei personaggi donne e uomini ‘della strada’, si sarebbe detto una volta (scene e costumi di Chloe Obolensky). Questo sarebbe stato già abbastanza a riscaldare gli animi, nel caso ipotetico de I Lombardi, forse. Però, su queste scene e con questi costumi moderni, i personaggi si muovono come spesso capita all’opera con le regie cosiddette ‘tradizionali’, ambientate negli spazi e nei tempi previsti dal libretto, e in cui l’aspetto visivo/teatrale è un effetto collaterale della musica. L’impianto scenico è di grande effetto, ma lo è a scapito della personenregie. Col risultato che tra scene e personaggi non ho colto nessun rapporto di necessità, anzi, fino alla liberazione finale, i personaggi e le loro azioni sembrano sostanzialmente indifferenti agli spazi e ai tempi in cui agiscono. Soltanto nel finale dell’opera infatti lo spettacolo ha un colpo d’ala e si fa carico degli spostamenti su cui si fonda. Non solo perché con Don Fernando arriva la tanto attesa luce a rischiarare il buio, e la scena si movimenta come mai successo fino a questo momento, ma perché Warner rende davvero contemporanea la vicenda, facendoci capire che nel suo Fidelio non siamo più nella Spagna del XVIII secolo, ma nemmeno nella Vienna del 1814. Infatti, la liberazione dei prigionieri non ricompensa né Marzelline per la perdita di Fidelio (ha scoperto che è una donna e per di più felicemente sposata), né Jaquino (che per questa agnizione non conquista il cuore dell’amata Marzelline). I due, come due giovani di oggi, non dimenticano i sentimenti feriti, sacrificandoli a vantaggio del tripudio generale, e con la loro disperazione gettano un’ombra su questo strano “e vissero felici e contenti” che conclude l’opera.

 

Fidelio è stata l’ultima inaugurazione di Daniel Baremboim alla Scala. Il pubblico milanese lo ha molto festeggiato alla prima, come anche alla recita del 13: sia al suo rientro dopo il primo atto, sia alle uscite finali gli applausi sono stati molti e convinti. Eppure, trovo che questa non sia stata tra le sue prove migliori. Con lui sul podio l’orchestra è sempre al suo meglio, non ci sono dubbi. Tuttavia, fin dall’inizio i tempi sono dilatati, il fraseggio è tirato, e il suono spesso. Insomma, una direzione ‘muscolare’, che alla Scala nel repertorio primo ottocentesco speravamo di aver archiviato ormai da qualche anno.

 


Un momento dello spettacolo
Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano 


Difficile dare un giudizio sui due protagonisti, il Fidelio/Leonore di Anja Kampe, e il Florestan di Klaus Florian Vogt. Entrambi affrontano i rispettivi ruoli con sicurezza, ed escono bene dalle insidie della terribile scrittura beethoveniana. Sono corretti e, con le riserve sulla regia di cui sopra, scenicamente credibili: il pubblico scaligero li ha giustamente premiati per questo. Ma “escono bene”, per l’appunto. Sebbene siano i protagonisti, cioè, non sono loro che dominano la scena dal punto di vista vocale e, soprattutto, interpretativo. Kwangchul Youn (Rocco) e Peter Mattei (Don Fernando) con il loro fraseggio, la varietà di accenti e la potenza della loro voce hanno tutt’altra autorità nei panni dei loro personaggi, e, quindi tutt’altro impatto sul pubblico: è a loro che sono andati i maggiori applausi della serata (con Jonas Kaufmann in sostituzione dell’indisposto Vogt nella recita del 10 dicembre le cose sono andate diversamente, come ci si poteva attendere). Anche Florian Hoffmann, per quanto in un ruolo secondario qual è quello di Jaquino, mostra una personalità vocale e musicale spiccata; personalità che non ha mostrato invece Mojca Erdmann nei panni di Marzelline. Bene il Don Pizarro di Falk Struckmann, a suo agio nei panni del vilain, ma la voce non è più quella di qualche anno fa.

 

 

Fidelio



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