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Matrimoni d’interesse al tempo del fascismo

di Gianni Poli
  La bisbetica domata
Data di pubblicazione su web 06/12/2013  

 

Scene e costumi stabiliscono, al primo impatto visivo, un’ambientazione insolita per la commedia shakespeariana allestita da Andrej Konchalovskij con una Compagnia bene assortita, riunita all’occasione. L’idea registica motrice consiste nell’immaginare la vicenda in una Padova degli anni Millenovecentoventi, designata dalle architetture del razionalismo metafisico e incarnata da personaggi rappresentativi del fascismo. La condizione femminile illustrata da Shakespeare è qui giustificata dall’ideologia del regime e mostrata quale esempio dei rapporti familiari e sociali vigenti. La scelta, per quanto intrigante, induce nello spettatore impressioni discordi e reazioni perplesse. Se i connotati dei personaggi infatti si riconoscono in quel nuovo tempo convenzionale, i loro moventi appaiono forzati nei registri della recitazione e negli elementi spettacolari, sovrapposti e incongrui. Le classi sociali sono distinte, oltre che dai costumi, dal parlare affettato e forbito dei ricchi e dai toni rozzi, maliziosi e volgari dei servi. Un’automobile, o per sinèddoche un volante, fanno le veci dei cavalli di cui lo chauffeur è il moderno conduttore. Le ragazze da marito sono merce di scambio in un sistema commerciale redditizio cinicamente gestito dai maschi padroni.


Una scena d'insieme. (c) Salvatore Pastore

 

Battista, signore padovano, tiene a bada i pretendenti della giovane figlia, Bianca, imponendo la priorità delle nozze della maggiore, Caterina, che per il suo carattere s’è resa finora inabbordabile. Ma l’arrivo di Petruccio, cacciatore di dote veronese, sembra avviare a soluzione i problemi di cuore e di finanze dei diversi interessati. Ciò avviene nell’ambito delle meraviglie che la favola intreccia e dispiega con travestimenti, inganni, equivoci e rivelazioni. La sua  ingenuità è bilanciata da un linguaggio vivace e rigoglioso e la sua trama sfocia in una lieta, accomodante morale conclusiva sui ruoli a confronto, femminili in particolare. Non così appare nell’interpretazione di Andrej Konchalovskij, che fa sentire forte, ma non altrettanto chiaro e coerente, lo stile cinematografico nelle sue ipotesi e nelle relative trovate sceniche della sua trasposizione. Eliminando il Prologo, parte subito dalla situazione centrale, l’ardua sistemazione della bisbetica indomita. E se il testo originale è macchinoso, qui il taglio delle battute richiama l’affollamento delle divagazioni e dalle integrazioni, concesse ai duetti e agli assolo. Inseguendo una recitazione «all’ italiana», sono continui gli apporti e le citazioni eterogenee, dalla Commedia dell’Arte (lazzi, maschere) all’avanspettacolo, sicché non si comprende come la borghesia padovana nel Ventennio possa dar luogo a un così frenetica, convulsa effusione emotiva, tipica d’una popolarità da bozzetto napoletano, da folklore mediterraneo. Forse perché la prima è avvenuta al Napoli Teatro Festival di richiamo internazionale.
 


Un momento della messinscena. (c) Salvatore Pastore

 

Nel ricco cast, i giovani si conquistano una simpatia speciale profondendo slanci, corse e salti in vere prestazioni atletiche. Questa esuberanza viene emulata dai più anziani nei ruoli di notabili e padroni. Vittorio Cioncalo (con baffi alla Dalì) è un Battista bonario e paternalista, assorto nel suo progetto venale. Carlo Di Maio è un orgoglioso pretendente Ortensio, in divisa e fez e Giuseppe Rispoli è Gremio, il suo velleitario rivale. Lucenzio (Flavio Furno) e Bianca (Selene Gandini), mostrano già dal candore dei costumi i loro caratteri aperti alla spontaneità e alla gioia, un po’ sfrontati in pubblico. Ulteriormente disinibita la categoria dei servi: quelli di Lucenzio (Adriano Braidotti e Antonio Gargiulo), di Battista (Giuseppe Bisogno) e di Petruccio (Roberto Serpi), agili e petulanti nei gustosi manierismi. Protagonisti sono due interpreti d’esperienza e di talento. Non fidano tanto sul physique du rôle quanto sulle risorse tecniche ed espressive personali. Il Petruccio di Federico Vanni sfoggia una millantata autorevolezza e ne verifica l’efficacia nella pazienza del suo trattamento d’adulazione e d’assenso, ma inflessibile nel contrastare l’ostinata partner. Usa la sua bella stazza anche come strumento di dominio e di argine all’impeto della donna. Mascia Musy offre in Caterina una femminilità prima sconcertata dall’insolito avversario, poi sempre più conscia della propria forza autonoma nella riconquista della supremazia. Abile nei compromessi e nelle ambigue seduzioni, con la voce e la gestualità gioca per dominare. Legge la lista delle prerogative della buona moglie come fosse un «massimario coniugale» ripreso da La scuola delle mogli di Molière (mentre era dolce dichiarazione di resa, in origine), ma la termina in groppa al marito, condiscendente anch’egli in una inedita complicità.


 


Scena del bacio tra Caterina (Mascia Musy) e
Petruccio (Federico Vanni). (c) Salvatore Pastore

 

Tutti abbigliati impeccabilmente da Zaira de Vincentiis, come usciti da figurini dell’epoca, i personaggi accentuano la caricatura più che non aderiscano all’ambiente. Questo è invece visivamente affascinante per l’originale scenografia virtuale, mutante nelle proiezioni di edifici e sfondi. Nel diffuso movimento, spesso corale, la coreografia di Ramuné Chodorkaite guida le scene all’aperto, un po’ da fiera paesana e i combattimenti di coppia, assalti belluini. A queste regole gli attori s’adeguano con abnegazione. Episodi salienti, lo scontro fra le sorelle, espresso con una specie di tortura con la corda e il primo incontro-combattimento fra Petruccio e Caterina. Poi, l’adescamento a cui ricorre la sposina affamata per ottenere dal servo il cibo negato dal marito. Le musiche sorgono dal grammofono, citazioni di canzoni in voga, nemmeno in fase cronologica; comunque affettuosi e ironici motivi nel clima che precede il  tripudio pirotecnico del finale. Appare, insomma, sproporzionato il lavoro compositivo e rappresentativo - insistito sulle scene-madre e retto comunque da ritmo sostenuto - rispetto all’effetto di ridondanza e discontinuità stilistica, per una storia che, vivendo di leggerezza e di poesia, avrebbe goduto di più sobrie e immediate soluzioni comunicative.


La bisbetica domata
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