Da quando nel 2007, passando per il Premio Scenario, si sono imposti nel panorama nazionale con il loro made in italy, i veronesi Babilonia Teatri hanno collezionato una serie ininterrotta di successi, mettendo per una volta daccordo pubblico e (gran parte della) critica. In realtà il loro percorso artistico era già iniziato qualche tempo prima, ma certo quella è la data della loro “conclamazione” come realtà di primo piano allinterno del cosiddetto teatro sperimentale (nel 2009, insieme a Santasangre, Muta Imago e Teatro Sotterraneo vincono il Premio Ubu Speciale “per la capacità di rinnovare la scena, mettendo alla prova la tenuta del linguaggio e facendo emergere gli aspetti più inquieti e imbarazzati del nostro stare nel mondo”). Da lì in avanti il gruppo – fondato nel 2006 da Enrico Castellani e Valeria Raimondi – non ha compiuto alcun passo falso, proponendo in sequenza spettacoli inquietanti e complessi come Pop Star, Pornobboy e The End.
In tutta questa prima parte della sua produzione la compagnia, puntando il proprio sguardo corrosivo di volta in volta su un tema differente, impernia le proprie caustiche creazioni sceniche su alcuni elementi comuni: a una parola scarnificata e fluviale, privata di qualsiasi funzione e struttura drammaturgica e lanciata addosso agli spettatori da corpi altrettanto indifesi e “nudi”, fanno da controcanto pochi, significativi oggetti di scena e lacerti sonori, motivetti, canzoni dautore che appartengono allimmaginario collettivo e che vengono spesso usati a mo di contrappunto. Con questo schema, nelle sue molte possibili variazioni, sono affrontate questioni di spinosa e cruciale attualità: dai più beceri (e pur tuttavia duri a morire) luoghi comuni e pregiudizi che contraddistinguono il Nord Italia più rozzo e provinciale alla coltre che affligge e uniforma in senso pornografico linformazione e la comunicazione, dalla frustrazione disperata e nichilista delluomo e della donna contemporanei (punteggiata dalla voce soave di Laura Pausini che trionfa a Sanremo) alla (im)possibilità di decidere della propria vita (e del suo termine).
Un momento dello spettacolo. Credits: Marco Caselli Nirmal
Queste tematiche sono trattate in modo “oggettivo”, senza pregiudizi ideologici, e acquistano nuova pregnanza anche grazie alla dimensione “corale” con cui vengono proposte. Una coralità percepita, paradossalmente, anche quando cè solo un attore in scena, e alla quale contribuiscono in ugual percentuale parole e gesti, offerti, o meglio “gettati” frontalmente al giudizio dello spettatore. Tali caratteristiche tornano, rinnovate, anche nel magnifico The End (Premio Ubu 2011 come miglior novità italiana), nuova tappa dellesplorazione del gruppo, rivolta alle diverse età della vita. La morte rimossa, abbellita, rinviata, esorcizzata dalle manie deternità del mondo doggi è convocata in scena attraverso la solitaria presenza catalizzatrice di Valeria Raimondi in un monologo appunto “corale” in cui con grande efficacia convivono momenti di stridente invettiva e altri, altrettanto incisivi, più poetici ed elegiaci.
Ma appena prima che la critica nostrana, sempre bulimicamente ansiosa di novità, levasse il suo De Profundis sugli “stilemi divenuti maniera”, o sull“esiziale pericolo della ripetizione di strade già percorse” (cè una certa costanza in queste formule rituali, con le quali talvolta si decreta il declino di artisti osannati fino al giorno prima) i Babilonia stupiscono tutti con un approccio inedito, che però condivide con le esperienze passate il rigore (estetico ed etico) della ricerca. Questo avviene con lultimo lavoro, Pinocchio, che ha esordito l8 dicembre al Teatro Storchi di Modena e sta ora girando per il Paese (il 15 giugno poi, al Napoli Teatro Festival Italia, debutterà Lolita, nuovo viaggio intorno a una fase difficile e straordinaria della vita come ladolescenza).
Un momento dell'azione. Credits: Marco Caselli Nirmal
Lo spettacolo nasce dallincontro con lassociazione bolognese Amici di Luca, che riunisce persone uscite dal coma. Tre di loro – Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli – sono i protagonisti assoluti.
Il portare la malattia a teatro, se non si ha la genialità visionaria del Pippo Delbono dei tempi di Barboni, rischia sempre di debordare nel patetico, assecondando – non per forza consapevolmente, il che è anche peggio – il sentimentalismo di chi attua e di chi osserva. Ebbene questo rischio Pinocchio non lo corre mai, forse anche grazie alla sua particolare struttura, che vede Enrico Castellani nei panni (nascosti, perché se ne sta in cabina di regia, e si sente solo la sua voce) di intervistatore/conduttore e i tre “attori” in quelli di “intervistati”. Come di consueto, non cè interpretazione né recitazione, solo domande poste con controllata ironia, e risposte che svelano progressivamente le storie personali di chi sta in scena.
Il personaggio di Collodi – cui il “copione” continuamente rimanda – sta a simboleggiare il passaggio da un tipo di esistenza a un altro, e rende perfettamente lidea della differenza siderale tra il presente e “laltra vita”, quella precedente al trauma subito. Attraverso questi tre corpi seminudi, dolenti, segnati, diversi per età e vissuto ci vengono narrati altrettanti presenti fatti di sofferenze, sogni, ricordi, desideri... “Il testo – spiega Enrico – nasce da una serie di improvvisazioni su palco compiute con gli attori, da cui poi abbiamo tratto il materiale migliore. In ogni replica il livello di improvvisazione è molto alto, ci sono solo degli ‘appuntamenti fissi che costituiscono i vari momenti dello spettacolo. Ma proprio per evitare che dalla ripetizione sorga una ‘recitazione mnemonica cambio spesso le mie domande, cercando di spiazzarli ogni volta”. In questo continuo botta e risposta, che allinizio sembra estremamente esilarante, ma nel quale poco a poco fa capolino lamarezza e il dolore di chi si trova nella condizione di “risvegliato”, vengono evocate fate turchine dal corpo sinuoso e dallanimo buono e paesi dei balocchi che prendono le forme e i contorni della vita passata, rimpianta da un lato e superata dallaltro. In questo contesto, fortissima emozione provoca la “trasformazione” di uno degli attori (Paolo Facchini) in asino, con le parole che un po alla volta diventano lancinanti ragli, o i movimenti meccanici di Luigi Ferrarini, che obbedisce ai comandi di un Pinocchio over size (impersonato da Luca Scotton) per poi venire issato e tenuto sospeso come una vera e propria marionetta. O ancora il viaggio apotropaico che simula Riccardo Sielli sopra una moto che in realtà è una seggiola. La storia di Collodi, con i suoi personaggi paradigmatici e i suoi luoghi simbolici, è dunque il tracciato ideale dove inserire altre parabole esistenziali, oltre che esplorare nuove vie alla teatralità (come insegna peraltro la grande lezione di Carmelo Bene, che con questo strano, affascinante romanzo si è misurato a più riprese per quarantanni).
Credits: Marco Caselli Nirmal
Né interpretazione né recitazione, si diceva. Eppure questo Pinocchio presenta unessenza eminentemente teatrale sin dalla sua concezione, nascendo come abbiamo visto da un lungo lavoro dimprovvisazione. La forma/intervista poi, nella finzione che presuppone e di cui tutti – attori, registi, pubblico – sono coscienti, oltre a condurre con apparente leggerezza lo spettatore allinterno di tre drammatiche esperienze individuali, permette anche un raffinato gioco metateatrale. Così capita che Enrico Castellani, a una risposta “fuori copione” da parte di uno degli attori, replichi a sua volta con una frase come “Lei lo sa che a teatro certe cose si possono dire e altre no?” E questa domanda ironicamente nega uno dei punti di forza che sembrano caratterizzare la poetica dei Babilonia: la convinzione che a teatro, invece, si possa (e anzi si debba) dire tutto, anche a costo di scontentare le aspettative, rompere lempatia e creare scandalo, come – per restare ai tempi recenti – sosteneva il teatro visionario e radicale di Sarah Kane.
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