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L'illusione di Dio

di Luigi Nepi
  Paradies: Glaube
Data di pubblicazione su web 01/09/2012  
                                 

«Quando una persona soffre di un'illusione parliamo di pazzia, ma quando ciò accade a molte persone parliamo di religione.» Così scrive Robert Pirsig nel suo famoso libro Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, una frase che Richard Dawkins riporta per intero nella prefazione del suo, altrettanto famoso, L’illusione di dio. Anche se il regista austriaco Ulrich Seidl dichiara di aver attinto dal materiale raccolto per il suo documentario Jesus Du weisst (2003) per scrivere la sua sceneggiatura, probabilmente deve (o, quanto meno, dovrebbe) conoscere il punto di vista dei due famosi studiosi, perché quella che viene messa in scena in questo secondo capitolo della trilogia Paradies è proprio una visione patologica della fede. Iniziata con Paradies: Liebe, appena passato in concorso a Cannes, la trilogia racconta le storie di tre donne che si dividono all’inizio del primo film per trovare i rispettivi “paradisi”; si tratta di due sorelle cinquantenni e la figlia adolescente di una delle due. Se la prima sorella (che è anche madre) scopre il suo paradiso “amoroso” pagando ragazzi di spiaggia in Kenya, la seconda (Anne Marie, interpretata da una Maria Hofstätter perfettamente in parte) cerca il suo attraverso una visione totalizzante della fede cattolica.

   

Anne Marie è un tecnico di radiologia estremamente scrupolosa, ma una volta lasciato l’ospedale diventa una “legionaria del Cuore di Cristo”, un gruppo religioso integralista che vuole riportare l’Austria al cattolicesimo. Alterna alla sua opera di missionaria della Vergine Maria (gira per le case, soprattutto degli stranieri, con una statua della Madonna al motto «la Madonna oggi è venuta a trovarvi») a pratiche mortificanti per il proprio corpo in remissione dei peccati della società (flagellazione, cilicio, rosari fatti in ginocchio vagando per casa). La sua vita sembra perfettamente scandita da queste pratiche quando torna a casa il marito, un arabo paraplegico andato via due anni prima. Il rapporto tra i due si fa chiaramente sempre più conflittuale (anche ideologicamente) fino all’inevitabile, quanto patetico, tentativo di violenza da parte dell’uomo che rivendica il suo diritto alla sessualità.

 

Seidl continua la sua ricerca in quella che potrebbe essere definita un’estetica del brutto (che con Canicola gli valse un Premio Speciale della Giuria proprio a Venezia nel 2001), non dispensando di mostrare nudità e corpi ripugnanti (anche i pazienti dell’ospedale sono intenzionalmente brutti) che finiscono, però, per essere una facile e disperata metafora della società che lui vuole mettere all’indice. Ogni inquadratura rappresenta un tassello per ribadire una tesi predefinita, le sue immagini hanno una rigida struttura centripeta, al centro del quadro c’è sempre un personaggio, un oggetto, comunque un elemento che catalizza l’attenzione dello spettatore, quasi a volerlo costringere a non distrarsi con il fuori campo. In questo contesto anche le provocazioni, che mette in atto con l’evidente intenzione di stupire, finiscono per perdere la loro incisività proprio perché diluite in un contesto progettualmente provocatorio. Nonostante che alcuni brevi passaggi siano piuttosto divertenti, come, ad esempio, la discussione di Anne Marie con l’anziana coppia convivente (un vedovo ed una divorziata che per questo sono «concubini, adulteri e peccatori»), tutto scorre senza generare particolari sussulti, neanche il rapporto fisico e assoluto che la protagonista ha con Cristo e le sue icone (arriverà a masturbarsi con il crocifisso) riesce a scandalizzare più di tanto («Mi aspettavo qualcosa di più forte» è il commento che ho sentito all’uscita del film).

  

«Mai prima d’ora nel cinema sono riuscito a guardare dritto nell’inferno» è il grande complimento che Herzog ha rivolto al cinema di Seidl, ma, purtroppo, l’inferno di Paradies: Glaube è proprio così brutto come ce lo siamo sempre immaginati da soli. Quindi se si è davvero interessati all’aspetto patologico della religione come illusione collettiva (e soggettiva) forse è meglio rivolgersi direttamente verso altri “inferni” (magari quelli di Pirsig e Dawkins tanto per iniziare).




Paradies: Glaube
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La locandina



 
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