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La “voce del padrone"

di Carmelo Alberti
  L'avaro
Data di pubblicazione su web 20/04/2010  

È possibile leggere L’avaro di Molière al di fuori dall’artificioso registro di commedia moralistica e rassicurante, al punto da pretendere tassativamente una riabilitazione finale in grado di disapprovare la patologia dell’avidità e di ripristinare l’armonia familiare, sull’onda dell’amore tra i giovani e verso i giovani. Prova a farlo il regista Marco Martinelli che mette in scena, per conto del Teatro delle Albe /Ravenna Teatro, la traduzione di Cesare Garboli, rispettandone completamente la tessitura e lo sviluppo. Agisce, piuttosto, sulle motivazioni sotterranee di una trama che svela, via via, la natura egocentrica e cinica di ciascun personaggio, il cui desiderio inconfessato è quello di impadronirsi della “voce del padrone”, del denaro e del potere di Arpagone. La scena si presenta dischiusa allo sguardo degli spettatori, come uno spazio aperto, circondato da tendaggi, da cui si affacciano figure a prima vista innocenti, alquanto insinuanti, che spiano, osservano, ascoltano. L’iniziale décor, a sipario aperto, mostra un sobrio studiolo borghese, dietro il quale s’intravede il modellino di una “casetta” illuminata, come un faro che attrae esseri in cerca di denaro facile, smaniosi di soddisfare la loro subdola passionalità; ma poco dopo gli attori-macchinisti svuotano il palcoscenico fino a ridurlo a luogo neutro di una rappresentazione circolare, che straripa oltre la ribalta e chiama in causa chi assiste.

 


                                Una scena © Claire Pasquier


 

D’improvviso la vicenda molièriana si colora di ridicola tragicità; gli abitanti del palazzo di Arpagone sono troppo preoccupati a tessere giochi apparentemente infantili, quasi con disincanto; eppure, quegli eterni ragazzi amoreggiano di nascosto, si sdoppiano e si ricompongono, si toccano morbosamente, come fanno due serve-prostitute, progettano un futuro contrassegnato da uno stato di benessere e di ricchezza.  Agli estremi opposti si collocano da un lato l’avaro, che vive in simbiosi con l’idea del possesso, sintetizzata nella scritta “casetta/cassetta”, dall’altro mastro Giacomo, il cuoco-cocchiere l’unico che s’illuda di poter rivelare le proprie contraddizioni e invidie senza conseguenza alcuna. Invece, Valerio finge di accontentare il capo famiglia, in attesa di ottenere la mano di Elisa, sua figlia, e la sua parte degli averi. Cleante non aspetta altro che di assumere l’eredità paterna, mentre contende al vecchio genitore la mano della bella Mariana. Il furbo Saetta, servo bugiardo, finisce per mettere le mani sul ricco scrigno di Arpagone, facendolo sprofondare in una traumatica angoscia che tanto somiglia al tracollo dell’intero mondo.

 

Quando, sul finire del lavoro, affiora dalla platea un’altra voce autorevole, quella di Anselmo, a cui l’avaro ha promesso la figlia, è tempo di snocciolare senza enfasi la regola dell’agnizione, che può rimettere a posto i frammenti del puzzle, mentre il febbricitante spilorcio risale la china dello sconforto, sapendo al sicuro il suo tesoro sepolto. Il personaggio di Arpagone è interpretato con rara efficacia da Ermanna Montanari, un’interprete insuperabile nel rivelare le modulazioni più segrete del suono vocale; l’avaro, che sembra compendiare l’essenzialità del dualismo maschile/femminile in ambito familiare, difende la supremazia della parola che permette di governare, dicendola al microfono, mentre mostra alla luce dei riflettori il suo volto immobile, che ricorda la maschera della malinconia. Attorno si muovono interpreti consapevoli e garbati, come il magnifico Luigi Dadina, nei panni di Giacomo, oppure Roberto Magnani che recita il capriccioso Cleante, e lo stesso Martinelli che fa la parte del didascalico Anselmo. La regia tratta la storia come una preziosa tela di Penelope, sulla quale comporre e scomporre i fantasmi di caratteri in cerca di guadagnare il ruolo di voce primaria, alla stregua di ritagli fotografici mossi da una trama teatrale consueta e fasulla.



L'avaro
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