Con Bal (Il miele), il regista turco Semih Kaplanoglu porta a termine la promessa trilogia del ritorno alle radici, progetto molto ambizioso e forse un po intellettualistico volto ad indagare i disagi e le lacerazioni di una condizione ormai maggioritaria di spaesamento dovuta allallontanamento dal paese natale e dalle sue profonde influenze. Staccandosi nettamente e lodevolmente dalle più esplicite (e oggi forse un po troppo in voga) tematiche “integrazioniste” (che a Berlino trovano sempre sollecito asilo), il regista resta a casa, indagando la vicenda personale di Yusuf, giovane libraio inurbato che dal piccolo paese di campagna giunge nella caotica Istanbul, e ne narra la vicenda à rébours, come in un poema della memoria. Il primo canto, Yumurta (Le uova) trova lo spunto narrativo nella morte della madre del protagonista, costretto a rientrare in paese e a fare i conti con quanto aveva lasciato, soprattutto i riti dai quali si era allontanato ma che ora adempie con antica pietas filiale. Presentato nel 2007 al Festival di Cannes nella “Quinzaine des réalisateurs”, il film anticipava le caratteristiche delle due opere successive, intrecciando con una certa abilità la vicenda narrata con la sua espressione formale, accuratissima, nelloscillazione fra oggettivo e soggettivo e, soprattutto, consentendo alla natura di emergere piano piano come vera interlocutrice del tentativo del giovane di riappacificarsi con se stesso e di far convivere la propria razionalità con il mondo rurale dorigine, ancora intriso di ritualità e magia.
La seconda puntata di questo viaggio memoriale a ritroso, Sut (Latte), presentato a Venezia nel 2008, conferma pregi e difetti del regista, sempre a suo agio con la visualità ma sempre un po troppo carico di significati e attento a risonanze e parallelismi interni, innamorato del ruolo autoriale. Protagonista è letà del disagio, ladolescenza di Yusuf, il difficile distacco da quella madre bella e vibratile che non rinuncia alla propria vita di donna creando nelladolescente sognatore e poeta inevitabili turbamenti. La perdita dellinnocenza e linizio della vocazione artistica preparano in qualche modo al tempo precedente, quello appunto dellinnocenza, protagonista dellultimo esercizio di stile.
In Bal (Miele), la poesia è più esplicita, il compito in qualche misura più facile, perché lincanto dellinnocenza e la poesia dellinfanzia sono connaturati ai ritmi della natura, la sua magia più esplicita e convincente. Il protagonista ha sei anni, la scuola gli crea un controcanto alla vita familiare, in particolare a quella del padre apicoltore, completamente immerso in quella natura misteriosa che il bambino ama, rassicurato dalla presenza forte del genitore. Questi è costretto ad allontanarsi sempre più, su per la montagna, alla ricerca di una sussistenza che le api, sparite dalla regione, gli negano. Yussuf si immerge sempre più nei suoi sogni e perde luso della parola fino a che, nella notte eccezionale passata dalla nonna in occasione della festa che celebra larrivo del profeta, si decide a partire solo alla ricerca del padre.
Siamo evidentemente di fronte ad un viaggio di formazione la cui valenza universale è accentuata dalla atemporalità (anche nelle scene urbane non si distinguono elementi di modernità) e il cui fascino, soprattutto visivo, è maggiore, come già nei film precedenti, nel felice rapporto quasi simbiotico che il regista riesce a stabilire tra la natura e lessere umano. Qui poi il compito è molto facilitato dalla presenza di un piccolo interprete, Bora Altas, di notevole, ma non smaliziata, espressività.
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